Nel 1986 la compagnia dell’Elfo aveva dedicato all’intera opera di Čechov un lungo laboratorio, per analizzarla, smembrarla, appropriarsene “vampiricamente”. Ne era nato Il Lago, spettacolo che vedeva in scena il nucleo storico della compagnia: Ida Marinelli, Corinna Agustoni, Cristina Crippa, Ferdinando Bruni, Luca Toracca ed Elio De Capitani; è lo stesso gruppo (con Bruni alla regia) che ritroviamo in questo Giardino dei ciliegi, ma affiatato e maturato da vent’anni di lavoro comune. Completano la compagnia quattro attori ormai di casa all’Elfo, Paolo Pierobon, Elena Russo Arman, Alessandro Genovesi e Fabiano Fantini, e i nomi nuovi della giovane Angelica Leo, di Alessandro Federico e Vittorio Attene.
Ferdinando Bruni racconta il lavoro sullo spettacolo, che ha previsto un primo allestimento a Osimo nel marzo 2006 e un riallestimento per il debutto milanese: «Lontane ormai tutte le possibili nostalgie per un mondo tramontato circa un secolo fa, messe da parte quindi queste madeleines che non evocano più nulla, tramontato il tetro impero oltre la cortina di ferro, che qualcuno poteva scambiare per il futuro luminoso annunciato dallo studente utopista Trofimov, siamo finalmente liberi di leggere questa pièce leggendaria senza le lenti deformanti della nostalgia o dell’ideologia. Così Il giardino dei ciliegi torna a essere quello che è: un’enorme tenuta che va alla malora, un tempo principale fonte di reddito della svagata famiglia di aristocratici decaduti. Un frutteto che una volta all’anno, nel mese di maggio, si copre di fiori bianchi e diventa “giardino”, metafora e simbolo di purezza, rimpianti, speranze e sogni. Ogni anno il ciclo delle stagioni si compie, e ogni anno il giardino ritorna giovane, ricomincia la sua vita. A contemplare questo miracolo per l’ultima volta, riuniti nella grande casa dell’infanzia, i personaggi della commedia non possono che scorgere su di sé, ognuno nell’altro, i segni del tempo che passa, il miracolo che su di loro non si compie, l’approssimarsi di una resa dei conti col proprio destino, che ormai non concede più dilazioni. Così nell’arco di un’ultima estate, si compie una vicenda fatta di nulla, ma che attraverso il chiacchiericcio inconsistente che copre la disperazione, attraverso pause di silenzio da riempire subito di risate o di lacrime, lascia intrasentire “il ridacchiare del tempo, quel galoppo da padrone”, lascia intravedere la ferite della vita che se ne va “senza averla vissuta”.
Il nostro spettacolo colloca l’intero svolgersi della commedia in una specie di limbo, l’antica stanza dei bambini, che è simbolicamente punto di ritrovo della famiglia per questa sorta di bilancio involontario dell’esistenza, fra oggetti concreti e al tempo stesso carichi di valenze evocative: la lavagna con l’alfabeto cirillico–europeo, i tabelloni illustrati per imparare il francese (la lingua dell’aristocrazia, la lingua dell’esilio), gli uccelli impagliati, prigionieri di una vita artificiale, oggetti che piano piano andranno sparendo, recidendo legami col passato, fragili e malati, lasciando spazio alla durezza impietosa del presente o alle utopie luminose del futuro. Perché Il giardino dei ciliegi racconta anche dell’avvicendarsi delle generazioni, di vite che si chiudono dopo aver attraversato secoli, e di vite che si aprono al futuro piene di speranza. È il tempo il protagonista di questa commedia rarefatta, buffa e disperata, il trascorrere delle stagioni nella vita degli individui e nella vita del mondo, la necessità di afferrare quel poco o quel tanto di vita che ci è concessa, prima che la scure abbatta gli alberi e le speranze si trasformino in rimpianti. Per noi, che viviamo questo ciclo legandolo al nascere e al morire di storie, di personaggi, di continue proiezioni nel futuro e di dialoghi privilegiati con i morti, questa messa in scena segna un ritorno a Čechov: l’idea è quella di ritrovare una possibile semplicità nella comunicazione teatrale (questo cerchiamo noi) attraverso la chiarezza e l’umiltà del naturalismo. Siamo entrati nel Giardino in punta di piedi, cercando di coglierne la grande bellezza poetica, ma anche la grande concretezza di specchio della vita reale. Cercando di nasconderci dietro la storia, i personaggi, le loro relazioni, così come anche Čechov si nasconde dietro la sua creazione, senza imporci una tesi o una visione, lasciandoci liberi di ascoltarne le risonanze, di leggervi quello che ciascuno sente importante per sé. Il resto non conta».