17 novembre 2006, Diario
Dall'Elfo, regia di Bruni, un Giardino dei ciliegi che torna al naturalismo
Čechov, ora
Ferdinando Bruni entra nel «Giardino dei ciliegi»
di Sara Chiappori

La leggerezza si addice a Čechov. Al suo mondo impalpabile di piccoli sussulti del cuore, di storie minime e amori inutili, di uomini e donne che annaspano goffamente rincorrendo una vita che non sono in grado di afferrare. Bella l’intuizione con la quale Ferdinando Bruni, alla guida della compagnia dell’Elfo per il suo primo, vero Čechov, ha scelto di ambientare tutto Il giardino dei ciliegi nella stanza dei giochi del primo atto, «congelando» l’azione nel limbo dell’infanzia emotiva ed esistenziale che condanna i suoi protagonisti a una perenne inadeguatezza. Materia teatrale sublime, quella del Giardino, per quanto sepolta sotto gli strati di una tradizione che spesso tende a soffocarne il respiro lieve, il ritmo impareggiabile, l’ironia piena di grazia. Consapevole del rischio che si assumeva, Bruni, che ha disegnato anche scene e costumi, ha lavorato di sottrazione e si è liberato di sentimentalismo, lirismo simbolico, sbilanciamenti ideologici, intellettualismi da teatro di ricerca. Ha fatto i conti con Stanislavskij, Visconti, Strehler, Michalkov, con totem e tabù, e ha deviato con eleganza divertita verso un naturalismo consapevole e ricercato con millimetrica precisione nel nome di una «classicità » perduta. Intorno a quegli oggetti che rivelano i segni inesorabili del tempo, l’armadio dei libri, i divani, i bauli che raccontano arrivi e partenze, gira la giostra buffa e dolente della nostra piccola comunità alla deriva.

Su tutti brilla Ida Marinelli, che affranca la sua Ljubov’ da eredità impegnative e la trasforma in una donna vera, fallita e tuttavia luminosa, struggente nella sua svagata concretezza. Intorno a lei, ai margini di quel giardino da cui non si vuole uscire, personaggi-icone dell’immaginario teatrale, ingombranti proprio per la loro ineffabile leggerezza: Gaev, del quale Elio De Capitani accentua i toni cialtroneschi di bambino mai cresciuto, Lopachin, il parvenu intraprendente che si compra la tenuta e che Paolo Pierobon controlla con mano esperta, Varja, intensa nello sguardo scuro di Elena Russo Arman, Anja, lieve come una piuma e che qui ha la freschezza di Angelica Leo, lo studente a vita Trofimov, a cui Vittorio Attene restituisce il giusto slancio.

Insieme a loro, ad affollare quel mondo chiuso con l’incessante brusio della vita, anche Corinna Agustoni, Luca Toracca, Laura Ferrari (in alternanza con Cristina Crippa), Alessandro Genovesi, Fabiano Fantini, Alessandro Federico. Uno spettacolo formalmente impeccabile, composto, misurato e volutamente semplice, un meccanismo raffinato che si nutre di pennellate di luce e poggia su una partitura di azioni studiate come su una scacchiera. Abbassando la temperatura emotiva, serrando i ritmi, concedendosi momenti comici, accelerando per evitare deviazioni sentimentali e tenendo tutto a impercettibile distanza. A ricordarci che il teatro resta un gioco da non prendere troppo sul serio. Nemmeno quando le scuri si abbattono sui ciliegi.