Jean-Louis Barrault, che del Giardino dei ciliegi fu uno dei grandi interpreti, disse: «Ogni istante, in Čechov, ha la sua densità, ma la densità non è nel dialogo, è nel silenzio, nella vita che scorre».
Questa idea del silenzio, che arriva fino alle sibilline o minacciose pause di Pinter, in Čechov è antidrammatica: è il suo «realismo reticente». La vita, ci dice Čechov, non è drammatica, è com' è. Di qui la relativa carenza interpretativa della sua opera. Di fronte alla nuda vita, c'è altro da scoprire? È vero che tanti lettori di Čechov hanno enfatizzato, soprattutto nei drammi, la presenza di figure simboliche. Ma anche il gabbiano o il bianco ciliegio, alla fine sono un elemento del paesaggio, un aspetto della realtà e non ciò che potremmo definire un tratto di spicco, un passaggio dal piano della realtà a quello della verità.
In questo senso la dichiarazione di Ferdinando Bruni sul suo allestimento del Giardino sembra pertinente: «Torniamo a Čechov per ritrovare una possibile semplicità attraverso la chiarezza e l'umiltà del naturalismo. Parlare di verità, di reviviscenza, può sembrare pomposo e presuntuoso. La voce di Čechov è limpida e chiara. Abbiamo cercato di ascoltarla e di lasciarla parlare attraverso lo spettacolo senza presumere che la nostra mediazione e la nostra lettura fossero più interessanti di questo testo miracoloso». Ciò che Bruni dice non è solo pertinente, è anche vero, corrisponde a quel che vediamo. Dopo le grandi lezioni realistiche di Visconti e di Strehler vi furono quelle destrutturanti, di Aglioti-Perlini, o di Castri (a Čechov, se si è fedeli, non ci si mette in luce, e se ci si mette in luce si è infedeli, cioè, caso più unico che raro, imperdonabili).
Così il teatro dell'Elfo compie un passo indietro. Nulla di grandioso. Tuttavia l'ascolto della voce di Čechov è possibile fino allo spasimo, fino a cogliere, nei suoi silenzi, il respiro, e, di essi, il ritmo. Come accade tutto ciò? È Čechov a offrirne l'evenienza non con un trucco ma, ancora una volta, con l'ascolto (della vita): «Improvvisamente risuona un rumore lontano, che sembra venire dal cielo, simile alla vibrazione d'una corda troppo tesa che si spezza. Il suono muore lentamente».
Ma oltre le voci dei protagonisti - la Ljubov, proprietaria di quel giardino che deve essere venduto e da cui ci si deve separare come ci si separa dalla vita stessa o (nello spazio e nel tempo) da una parte di essa, il fratello Gaev, le figlie Anja e Varja, il compratore Lopachin, il nuovo ricco, colui che si è affrancato dalla schiavitù e dalla povertà, il vecchissimo servo Firs - oltre le loro voci, prima che quel rumore lentamente muoia non abbiamo ascoltato una quantità di altri suoni? La chitarra di Epichodov (che, dice Čechov, è come un mandolino, ogni chitarra lo è), il canto degli uccelli, le sonagliere dei cavalli, l'avanzare della pioggia preceduto dai tuoni, il rintocco delle campane. Tutto questo, e niente altro, è la vita che scorre prima che il giardino sia venduto perché, su quel terreno, siano costruite villette da vendere o affittare.
Nello spettacolo di Bruni (morbidissimo, stoicamente sereno) si può cogliere una misteriosa, inattesa geometria tematica, istituita dalle brevi chiusure di sipario su ognuno dei quattro atti. I temi di essi, come dice Francis Fergusson in Idea di un teatro, sono: nel primo, il ritorno; nel secondo, l'agone; nel terzo, il pathos; nel quarto, l'epifania (della fine). Davvero mirabile l'interpretazione di Ida Marinelli, un'attrice piuttosto sottovalutata. Ma è svagato, bravissimo anche Elio De Capitani e, con lui, ricordo Paolo Pierobon, Elena Russo Arman, Angelica Leo, Fabiano Fantini, Vittorio Attene, Alessandro Genovesi e Corinna Agustoni. IL GIARDINO DEI CILIEGI di Čechov/Bruni Teatro dell'Elfo di Milano