La stagione 2002-2003


EDITORIALE STAGIONE 2002-2003

APPUNTI PER UN MANIFESTO

CONTRO IL KITSCH
Forse non a tutti è chiaro, ma il teatro è un fronte, uno degli ultimi, uno dei pochi, su cui è possibile combattere una battaglia non perdente contro l'affermarsi vittorioso di una sorta di stupidità omologante che dilaga e che contamina.
Contro la perdita di coscienza di sé e del valore del proprio essere uomini, legati ad altri uomini da una rete di relazioni che producono senso.
Contro un'idea del mondo che rimuove, nega e demonizza tutto ciò che è diverso, fastidioso, fuori dalle regole di una sottoestetica plastificata e livellante in una specie di metastasi perversa dell'idea di ' 'uguaglianza': La Dittatura del Proletariato Catodico.
La Dittatura del Kitsch.
Scrive Milan Kundera: "È questa una parola tedesca nata nella metà del sentimentale diciannovesimo secolo e poi propagatasi in tutte le lingue.
A furia di usarla, però, si è cancellato il suo significato metafisico originario: il Kitsch è la negazione assoluta della merda, in senso tanto letterale quanto figurato: il Kitsch elimina dal proprio campo visivo tutto ciò che nell'esistenza umana è essenzialmente inaccettabile.(…) I sentimenti suscitati dal Kitsch devono essere ovviamente tali da poter essere condivisi da una grande quantità di persone.
Per questo il Kitsch non può dipendere da una situazione insolita, ma è collegato invece alle immagini fondamentali che le persone hanno inculcate nella memoria: la figlia ingrata, il padre abbandonato, i bambini che corrono sul prato, la patria tradita, il ricordo del primo amore. (…)
Il Kitsch fa spuntare una dietro l'altra due lacrime di commozione.
La prima lacrima dice: Come sono belli i bambini che corrono sul prato! La seconda lacrima dice: Com'è bello essere commossi insieme a tutta l'umanità alla vista dei bambini che corrono sul prato!
È soltanto la seconda lacrima a fare del Kitsch il Kitsch."

Vogliamo un teatro dove i bambini non corrono sui prati dei luoghi comuni o nelle jungle da baraccone delle trasgressioni codificate,che sia lontano da tutto quanto fa clamore, moda, tendenza.
Il teatro deve essere decentrato, superato e inattuale perché proprio in questo crediamo stia la sua forza: nell'essere totalmente estraneo a un'attualità degradata, rumorosa e totalizzante, nell'essere un'isola nel mare gelatinoso di sciocchezze che ci assedia ribollendo giorno dopo giorno, nell'essere una grande porta che chiude fuori le urla dello stadio, le suonerie dei telefonini,le risse televisive, i miagolii delle canzonette, le pernacchie dei comici buffoni, il cigolio dei siliconi, i pianti e le urla dei talk show.
E nel silenzio, nel sospiro di sollievo di chi nella penombra materna della sala ha trovato rifugio, l'atto teatrale deve ritrovare il diritto di essere conoscenza e creazione.

IL NOSTRO TEATRO
Immaginiamo un teatro che sia una casa aperta agli incontri, agli scambi e alle contaminazioni, un luogo dove mettere in comune esperienza, mezzi, aspirazioni, dove accogliere forze nuove in cui riconoscere la tensione verso un'idea del teatro che sia soprattutto strumento di lettura e di analisi della realtà e delle nostre storie di uomini.

Un teatro che rompa consapevolmente la cornice dell'autoreferenzialità e dei riti autocelebrativi per porsi come obiettivo principale la ricerca del filo della comunicazione, per riannodare il rapporto con l'altra essenziale forza del fatto teatrale: il pubblico.

Un teatro che diventi quindi luogo di aggregazione di esseri umani, in un contesto sociale dove i nuovi media tendono, loro malgrado, a disgregare e a isolare, a ridurre la comunicazione a una funzione solitaria e onanistica. Una casa dove vivere un'esperienza comune, da cui in qualche modo si esca tutti, artisti e pubblico, con un piccolo frammento di conoscenza in più, conoscenza di sè, del mondo. della storia.

More Ethics, Less Esthetics: ci è parso un buon programma dell'artista di oggi, nel contesto della società in cui viviamo, nelle città in cui operiamo, in cui l'artista è, nei fatti, responsabile non virtuale di una funzione critica. E questo vale a maggior ragione per noi che siamo artisti-impresari, con tutte le schizofrenie e le contraddizioni che questa condizione impone, ma anche con tutte le novità, le consapevolezze e l'originalità, di cui siamo fieri, che questo doppio ruolo comporta, titolari di privilegi e di fatiche, di libertà e di schiavitù.

Crediamo che il dovere principale del teatro sia quello di far scattare un corto circuito di partecipazione fra chi l'evento teatrale lo vive sul palco e chi lo vive in platea, che senza il rinnovarsi di questa scintilla il teatro sia destinato a una noiosissima agonia.
Questa convinzione nasce da una analisi delle cose come sono nel mondo, nel campo artistico e nel teatro in particolare: la trasformazione del rapporto di scambio sociale tra arte e sistema generale delle relazioni umane, richiede una nuova consapevolezza all'artista e assegna un possibile nuovo compito, a nostro avviso, alle arti della rappresentazione.
I problemi della ricerca formale vanno dunque a farsi benedire in un contesto in cui la società stessa prende le forme del teatro.
Persino i gesti estremi di rivolta rischiano di fornire solo qualche immagine in più al catalogo delle trasgressioni da magazine.
Lo stesso spazio che la società-spettacolo concede al teatro, finisce per togliere senso a quello che pure un senso per le nuove generazioni di artisti ce l'avrebbe, e le costringe a essere eternamente new wave, per trovare l'unica via d'uscita possibile dallo stagno soffocante dell'anonimato che è il fantasma insopportabile e l'inferno della società occidentale.

In quanto artisti abbiamo previsto da tempo questo sviluppo e abbiamo inteso costruire un rapporto il più indipendente possibile tra noi e il pubblico. Pur dipendendo, come tutti, in grande misura dal tessuto delle relazioni sociali, l'assillo della visibilità a ogni costo e della tutela -del mondo politico o della critica teatrale - non ci fa prigionieri, il nostro essere artisti non dipende da questo tipo di protezioni: una città come Milano permette di costruire altri modelli di relazione e di tentare la strada di una maggiore autonomia.

Dunque è chiaro che mezzi e fine coincidono. Il teatro oggi è fine e mezzo, se accetta tutta la sua inattualità in una società in cui ogni persona è costretta a recitare un copione con poche battute lasciate all'improvvisazione, dove essere d'attualità per un artista può voler dire semplicemente adattarsi bene all'esigenza di quel copione.

Il teatro può fare del suo essere un mezzo di comunicazione inattuale il suo punto di forza. Sempre che non si compiaccia nella presunzione radical chic del produrre arte, ma che si dia il compito più severo di produrre senso.

E se nei nostri spettacoli i nuovi mezzi e le nuove tecnologie entrano ormai da anni a pieno titolo come strumento di lavoro, se il nostro sito internet è frequentatissimo e il nostro forum è spesso sede di vivaci dibattiti non solo teatrali, siamo convinti che è nel rapporto fra scrittura, attori e pubblico che va cercato il vero cuore del teatro. Così è con i nuovi autori, aggregando giovani registi ai nostri registi stabili, con una compagnia che accosta ai nostri interpreti storici un gruppo di giovani attori da mettere alla prova in ruoli anche impegnativi, da far crescere insieme a noi, con cui condividere un patrimonio di esperienza e di conquiste a volte faticose, che crediamo si possa riaffermare tutta la vitalità di un'esperienza.

Accanto alla difesa del nostro repertorio, che si è dimostrata fondamentale per la creazione di un pubblico sempre più vasto e per capitalizzare esperienze e scoperte che si rimandano da uno spettacolo all'altro, vogliamo che la ragione del nostro lavoro sia la valorizzazione di tutto quanto possa svolgere funzione di stimolo e di apertura in un panorama da più parti denunciato come asfittico.
Ci conforta in questo percorso la risposta del pubblico ai nostri spettacoli: 93.200 spettatori nell'anno 2001.
Un pubblico eterogeneo fatto di giovani che scoprono il teatro con noi, di spettatori colti e informati, di gente comune stanca e irritata da una televisione sempre più incapace di coinvolgerla o da un teatro sempre più paratelevisivo.
Un pubblico che non ha paura di avventurarsi lungo i percorsi non sempre agevoli e pacificanti della drammaturgia contemporanea, che non è scandalizzato da uno sguardo non museale sui testi classici, che non è disposto all'adorazione passiva di miti vecchi e nuovi, ma che valuta e sceglie con una straordinaria (e confortante) autonomia di giudizio.

UN FUNERALE, UNA NASCITA E DUE COMPLEANNI
Un laboratorio di linguaggi possibili, i frammenti di un discorso amoroso compongono il disegno di una stagione che per noi è anche una scadenza importante: la trentesima per il Teatro dell'Elfo, la decima per Teatridithalia.
Due anniversari che ci colgono in pieno trasloco, di nuovo in movimento con le valigie in mano, in partenza "verso nuovi orizzonti", non certo ripiegati su noi stessi a redigere nostalgici bilanci.
E se la chiusura del Teatro di Porta Romana non può che rendere malinconici noi e i milanesi che avevano fatto di quel teatro un punto di riferimento, la creazione di un nuovo spazio teatrale in città, il Teatro Leonardo da Vinci, e la messa in atto di sinergie vitali con un gruppo che abbiamo spesso ospitato, Quelli di Grock, ci carica dell'eccitazione di una vigilia.
Come importante sarà per la prossima stagione l'inizio della collaborazione, che speriamo lunga e proficua, con un artista, Eugenio Allegri, in cui riconosciamo i tratti di una passione comune.

Cosa vogliamo raccontare.
Citiamo Dickens che di narrazione ne sapeva parecchio, da "Il nostro comune amico".

"Mr. Podsnap era ricco e aveva un'alta opinione di sé. Egli aveva cominciato con una bella eredità, aveva sposato una bella eredità, si era fatto una straordinaria fortuna con le Assicurazioni Marittime ed era proprio soddisfatto.
Perché non tutti fossero soddisfatti non era mai riuscito a capirlo, quindi era ben consapevole che il fatto di essere soddisfatto di tutte le cose, ma in primo luogo di se stesso costituiva un brillante esempio sociale.
Data una così elevata opinione dei propri meriti e della propria importanza, Podsnap aveva stabilito che tutto quello che egli decideva di ignorare cessava ipso facto di esistere.
Questo modo di liberarsi delle cose sgradevoli, portava a conclusioni dignitose, oltre che assai comode, e aveva molto contribuito a innalzare Mr Podsnap fino a quella elevata considerazione di Mr Podsnap.
"Io questa cosa non la voglio sapere, non la voglio discutere, non l'ammetto!"
Egli aveva persino preso l'abitudine di fare un gesto speciale con il braccio destro, ogni volta che, buttandosele dietro alle spalle (e quindi annullandole) pronunciava tutto rosso in volto quelle parole per liberare il mondo dai suoi più ardui problemi. Perché rappresentavano un'offesa."

È lì che noi cerchiamo, è lì che noi frughiamo, è lì che noi troviamo le nostre storie: dietro le spalle di Mr Podsnap.
È lì che incontriamo i nostri autori e gli autori degli spettacoli che siamo felici di ospitare perché intrecciano con le nostre produzioni un discorso unitario che declina a più voci la stessa idea di teatro.
"Aprirsi del tutto alla vita, l'arte verrà in seguito" come diceva Antonio Neiwiller, leggere il mondo per quello che è diceva Fassbinder, se il punto di partenza è la vita, soprattutto la vita nelle città, se questi anni ci hanno sempre visti intenti ogni volta a scovare un frammento della ragione intima dell'essere umano, se il nostro rapporto con la produzione artistica parte da un'accettazione sostanziale del contemporaneo come dato di fatto, se siamo stati e siamo ancora quello che siamo insomma, è perché vogliamo occupare questo e non altri luoghi dell'arte del teatro, perché vogliamo raccontare queste storie, queste guerre, queste battaglie. E di queste guerre, di queste battaglie - quelle fra gli uomini e quelle dentro gli uomini - il teatro deve farsi carico per tornare (o per continuare) a essere un luogo che produce senso, dove ritrovare un filo possibile nella conoscenza di se stessi e del mondo, dove tornare a essere, almeno per qualche ora, comunità.
Il teatro deve riscoprire la sua funzione di antichissimo e mai superato mezzo di comunicazione interattiva, deve cercare strenuamente di mettere a frutto il qui e ora che costituisce ancora la sua caratteristica più rivoluzionaria.
Nei corpi degli attori, nella loro fatica, nell'errore sempre in agguato, come nella grandezza sempre imprevista, nelle parole ogni sera rinnovate e diverse degli autori, nello sguardo del pubblico, nel suo immenso potere di decodificare segni e emozioni in mille modi personali, diversi, eppure sempre veri, nell'essere questa capacità di vedere in fin dei conti l'ultimo regista di ogni spettacolo e nella capacità di ogni spettacolo di rivivere nell'elaborazione e nel ricordo di chi lo vede, lì sta il cuore del segreto.
Il teatro non è un linguaggio, il teatro è un discorso.
Il teatro è un dialogo, il teatro è l'arte dell'incontro

Ferdinando Bruni e Elio De Capitani
Milano 5-9-2002

La stagione 2002-2003