La stagione 2000-2001


EDITORIALE STAGIONE 2000-2001


Cari spettatori,
       che viaggio faremo insieme quest'anno? Dei venticinque spettacoli proposti nel cartellone, tra festival e stagione, la grande maggioranza sono novità di drammaturgia contemporanea. Alcuni sono prime assolute o prime per l'Italia, molti sono spettacoli che hanno appena debuttato e hanno già fama di grande bellezza. Altri ancora nasceranno proprio qui. Scoprirete una straordinaria vitalità della scena nei venticinque spettacoli che proponiamo, e vitalità che attraversa tre o quattro generazioni di artisti, perché anche i più giovani assumono il loro ruolo senza tentennamenti.
È un viaggio nel nostro continente attraverso lo sguardo di questi artisti, uno sguardo importante per capire gli anni attuali. Sono stati anni laceranti che lasciano aperte molte questioni e nodi di tutto un secolo, ma fanno anche sperare che l'uomo sappia trovare in sé stesso la forza per cambiare.
Abbiamo scelto una frase di Eugenio Barba quest'anno: FACCIAMO SEMPRE COSE DIVERSE PER RIMANERE GLI STESSI. Le nostre frasi non sono mai slogan ma pensieri che ci fanno ritrovare senso nel nostro lavoro. E quest'anno il senso è nella necessità del mutamento per restare fedeli a sé stessi. Questa riflessione ha valore nella vita e nell'arte, ma anche nella politica.
Permettetemi ora una parentesi per riflettere con voi su quella parte di noi a cui vogliamo restare fedeli, proprio attraverso le cose sempre diverse che cerchiamo di fare. Poi torneremo a parlare di questa stagione.

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Lavoriamo a Milano dal 1973, con ostinazione. Molti di noi non sono milanesi ma sono fuggiti da varie parti della provincia italiana. Ci siamo ritrovati qui, a cavallo tra il '68 e gli anni di piombo. Avevamo vent'anni e la città allora era per noi la libertà di vivere e di guadagnarci da vivere come volevamo.
Il teatro è la nostra arte e l'arte è il solo strumento che avevamo, e ancora oggi abbiamo, per dare un senso e un progetto alla nostra vita in questa città, che ci pone ogni giorno di fronte al conflitto, permanente e irrisolto, tra cittadinanza, dissidenza e indifferenza.
I nostri primi teatri sono stati i centri sociali, la nostra prima sede, fino all'autunno del 1979, il vecchio Leoncavallo occupato. Rappresentavamo una generazione che costruiva un'alternativa in modo concreto, partendo dalla vita, dall'arte e dalla comunicazione. I nostri spettacoli erano feste, la musica era il veicolo più importante.
Operiamo ancora oggi in una zona di confine, riempiendo lo spazio che solitamente separa un luogo alternativo da una istituzione culturale della città, senza arrivare mai a comporre questa nostra identità complessa e contraddittoria, in una realtà stabilita una volta per tutte, coscienti di quanto sia stato difficile mantenere la sfida di questa doppia identità tra gli anni settanta e gli anni novanta del secolo scorso. E quanto lo sia ancora di più oggi.
Alle nostre origini eravamo un sintomo, senza particolari mediazioni intellettuali: l'espressione di una condizione giovanile diffusa nella città. "un fenomeno sociologico più che una realtà artistica". Fummo definiti anche così.
Figli dell'esplosione libertaria del '68, vivemmo gli anni anni '70 con grandi speranze. C'era stata una rivolta generazionale contro le ipocrisie di una società borghese arcaica e reazionaria, contro la famiglia e la scuola, che perpetuavano i valori di questa società. E contro i partiti, perché erano "dentro il sistema" e il sistema era il nemico da abbattere. Abbiamo gridato: lo stato borghese si abbatte non si cambia.
Ma il nostro stesso atteggiamento nei confronti dello stato e delle forme della democrazia aprì una contraddizione lacerante che ci separò dalla pratica politica di molti nostri compagni di rivolta in quei primi anni settanta. Chi di noi militava, lasciò la politica attiva in un arco di tempo che va dal '72 al '75. Nel '77, a Bologna, perdemmo ogni speranza di ricomposizione. La via dell'arte ci formava, senza che ce ne rendessimo conto fino in fondo, al rispetto e alla tolleranza, ma non si pacificava lo spirito della rivolta libertaria che era in noi: diventava civile, umano, direi umanista, proprio per non perdere la sua coerenza. Nel feroce dibattito di allora, ci sembrarono incoerenti gli esiti più integralisti del nostro movimento.
Noi rifiutavamo radicalmente la violenza come strumento di lotta politica. La democrazia formale non era solo un valore, ma una pratica che coltivavamo a partire dal nostro interno, nella vita materiale del nostro microcosmo sociale. La democrazia è molto faticosa ma crediamo valga la pena. La scelta della democrazia ci ha emancipato e reso adulti, ci ha permesso di resistere.

Separare la libertà dalla giustizia, diceva Camus, comporta separare la cultura dal lavoro, il peccato sociale per eccellenza.

È vero che la libertà offende il lavoro e lo separa dalla cultura quando è fatta soprattutto di privilegi. Ma la libertà non è fatta soprattutto di privilegi, bensì è fatta di doveri. E nel momento stesso in cui ognuno di noi cerca di far prevalere i doveri della libertà sui privilegi, in quel momento la libertà ricongiunge il lavoro e la cultura e mette in moto una forza che è l'unica in grado di servire efficacemente la giustizia. Si può allora formulare molto semplicemente la regola della nostra azione, il segreto della nostra resistenza: tutto ciò che umilia il lavoro umilia l'intelligenza, e viceversa. La lotta rivoluzionaria, lo sforzo secolare di liberazione si definisce innanzitutto come duplice e incessante rifiuto dell'umiliazione.

Così, Camus, nel 1936. Così ancora oggi, per noi. L'arte ci permette di essere liberi e di non essere liberi solo per noi stessi.

E allora il nostro teatro si fonda, ancora oggi, su un difficile patto tra il lavoro e l'arte, difficile perché controcorrente, perché richiede da anni faticose discussioni e progressi molto lenti. Ma rimane il patto fondante: quando l'intelligenza non riuscirà più a resistere alle infinite tentazioni, o consolazioni, del privilegio o della chiusura corporativa - cui è facile aspirare dati gli ampi margini che il vivere nella società occidentale ancora consente non solo agli intellettuali - allora saremo finiti come progetto. Accetteremo, magari anche inconsciamente, l'indifferenza.
Dunque Milano ha anche voluto dire un modo diverso, difficile, di costruire la nostra compagnia, la nostra squadra tecnica, i nostri uffici. I principi di autoproduzione e di autoformazione, faticosissimi anch'essi, ci hanno isolato sul fronte del teatro ufficiale per anni, ma ci hanno aperto all'ascolto della città.
Persone conosciute per caso in strada o in un centro sociale, si sono avvicinate al teatro e formate alla nostra scuola-senza-scuola hanno imparato un mestiere e ne hanno fatto la loro vita. Intere generazioni di artisti e di quadri hanno fornito un ricambio generazionale al teatro così, imparando sul campo. Ognuno veniva, prendeva quel che c'era da prendere e in cambio lasciava anche qualcosa.
Molti non capiscono questa nostra ostinazione, persino al nostro interno, molti considerano una perdita di tempo questo parlare, questo discutere. Il problema se mai è che il ritmo di lavoro ci lascia troppo poco tempo per discutere, perché è nostra intima convinzione che la ricerca di un senso nella costruzione del nostro ensemble sta in una certa misura di emancipazione per tutti attraverso il lavoro, il lavoro artistico in particolare. Sicuramente qualcuno troverà in questa affermazione un retaggio ottocentesco, ma chi ci dice che non occorra risalire anche a questo retaggio dell'umanesimo socialista per rifondare la democrazia?

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Torniamo quindi al cartellone di quest'anno, al viaggio che stiamo per intraprendere. Molti artisti, di diverse generazioni, hanno praticato la loro via nell'arte sulla base di posizioni sostanzialmente simili al nostro sentire. Molti di loro quindi che non vanno particolarmente d'accordo con il mondo in cui vivono, ma non perché siano strani loro, ma perché è il mondo che si ostina a considerare assolutamente normale la sua stranezza, la sua follia.
E la follia del mondo è quella di volersi espropriare da solo... L'arte ci ricorda in continuazione che non si può ridurre la vita materiale dell'uomo alla sola dimensione economica, così come non si può ridurre la sua vita spirituale alla sola dimensione religiosa della fede. Penso all'arte come a una via opposta alle altre dimensioni obbligate: una via libera del pensiero, un modo del pensiero di formarsi - libero dalla riduzione a una sola dimensione della vita umana.
Alcuni dei nostri artisti amano egualmente questo mondo con cui non vanno d'accordo, altri non lo amano. Altri vorrebbero, per poterlo amare, vederlo trasformato. Un tempo ci si divideva tra conservatori e innovatori, con diverse gradazioni. L'innovatore poteva essere un gradualista o un rivoluzionario, il conservatore poteva essere un moderato o un reazionario. Ma la divisione era quella. Ora lo schema non regge più: innovatori e conservatori si sono mischiati. Non ci crea disagio questa situazione: il dibattito per noi è stato già aperto in questa prospettiva fin dal dopoguerra, proprio da alcuni artisti, penso a Pier Paolo Pasolini - a cui dedicheremo un omaggio il prossimo ottobre, in occasione dei venticinque anni dalla sua morte.
Il teatro che proponiamo in questi venticinque spettacoli mostra un mondo irriducibilmente più complesso, ma anche più affascinante, di ogni pretesa semplificazione o riduzione. Il teatro contemporaneo, che sta esplodendo in Europa, ci allena alla complessità, mentre la comunicazione di massa è spesso - non sempre per fortuna - nella trappola della banalizzazione in nome della divulgazione.

Se gli intellettuali italiani continuano a snobbare quello che accade sulle scene è perché stanno loro fuori dal mondo, non il teatro. Il teatro contemporaneo è ormai rientrato nel mondo, ha compiuto di nuovo la saldatura indispensabile tra sé e il suo tempo: a volte costretto dalle cose, come ci insegna la storia di Biljana Srbljanovic, la giovane autrice di Belgrado che è l'emblema di un teatro che dialoga con la storia, in una tragica presa diretta, senza lasciarsi ridurre al silenzio e senza rinunciare alla gioia di vivere, anche se il destino l'ha voluta scrittrice in tempo di guerra.

Dunque, buon viaggio negli anni attuali e bentornati. E grazie per la forza crescente che la vostra presenza ha dato al nostro lavoro in questi anni.

                                                                                       Elio De Capitani

Milano, 15 settembre 2000

La stagione 2000-2001