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SOLO SEI ANNI FA
Ma fu nel '92 all'atto di unire l'attività di due teatri, Elfo e
Portaromana, che il progetto del repertorio prese corpo, dando respiro a
quell'idea. Fiorenzo Grassi e Gianni Valle si unirono a noi e dopo lunghe
meditazioni scegliemmo il nome di TEATRIDITHALIA Elfo e Portaromana
Associati per la nuova realtà che nasceva, un teatro d'arte contemporanea a
Milano. Puntavamo su una scelta di linguaggio e di autori, ma anche di
spettatori, assai radicale.
Partimmo, dopo molte indecisioni, con Resti umani non identificati di Brad
Fraser, scegliendo un autore canadese assolutamente sconosciuto ma, secondo
noi, in grado di parlare ai giovani milanesi. La critica fu molto
diffidente, in alcuni casi addirittura ostile. Il pubblico invase il teatro
fin dal primo giorno di repliche. File di giovani andavano a vedere uno
spettacolo teatrale come si va a un concerto, il teatro finalmente tornava
a riguardarli, anche se il linguaggio non era quello di tutti i giorni e
lo spettacolo era anche lungo senza concessioni allo stile "cabarettaro"
della scuola dei comici, con cui l'Elfo non aveva più molte relazioni o
frequentazioni dopo la diaspora di Salvatores e dei comedians.
Lo stile, la musica, i microfoni, l'immagine venivano direttamente
dall'ultima fase dell'Elfo (la firma era la stessa dei due Fassbinder:
Bruni/De Capitani) ma i protagonisti erano per la prima volta attori
giovanissimi e nuovi - a parte Ida Marinelli a rappresentare il legame con
la storia dell'Elfo. Volevamo inaugurare la prima stagione del nuovo teatro
trasmettendo la nostra idea di teatro a una nuova generazione di interpreti
e ci siamo accorti che inevitabilmente dovevamo parlare anche a una nuova
generazione di spettatori. Alcuni di loro scelsero addirittura di far
teatro vedendo quello spettacolo, come scoprii io stesso qualche anno dopo,
insegnando al corso di regia alla Civica scuola d'arte drammatica Paolo
Grassi.
Per un teatro d'arte la formazione del pubblico deve essere un obbiettivo
fondante. L'arte del teatro richiede l'arte dello spettatore. Noi facciamo
teatro in una città, idealmente la Grande Milano (perché il nostro
territorio si spinge oltre città stessa) per formare un pubblico, e non il
"successo di pubblico". Un teatro d'arte deve mantenere aperto un
conflitto, non può partire dal presupposto di accontentare, di "dare
zucchero alla scimmia". Deve quindi scegliere, non rivolgersi a tutto il
pubblico indistintamente. Avevamo iniziato a formare un pubblico diverso da
quello di tutti gli altri teatri, che si univa allo zoccolo duro del nostro
pubblico e faceva nascere un teatro davvero nuovo, a Milano. L'elemento
di novità del nostro teatro era nella sua identità -assai lontana dai
teatri borghesi tradizionali e dai teatri di puro intrattenimento, ma
neppure un teatro d'essai dedicato esclusivamente alla ricerca. Mentre era
senz'altro figlio della tradizione di teatro nazional-popolare portato in
Italia dal Piccolo di Strehler, ma legato alle sue origini di luogo
alternativo, di luogo di confine, di teatro autogestito.
LINDORE NEO-BRECHTIANO, TRASH O FURORE NEO-ELISABETTIANO?
TEATRIDITHALIA voleva assolutamente essere un luogo del teatro del nostro
tempo. Dovevamo dargli una riconoscibilità immediata e anche provocatoria,
capitalizzando il meglio dell'esperienza di Elfo e Portaromana. Ma
l'identità vera del progetto TEATRIDITHALIA dipendeva non solo dalla
riconoscibilità degli attori e dei registi, aggiungerei anche del suo
pubblico, del suo repertorio e soprattutto del suo nuovo linguaggio
teatrale:
"Una sigla o un linguaggio? (...) TEATRIDITHALIA (...) va evidenziando di
spettacolo in spettacolo l'approdo inusuale e vitale a una linea: lavoro
sulla contemporaneità, recitazione stilizzata, gioco insistente sul teatro,
approccio trasgressivo alla realtà con punte giovanilistiche. Lo si è
riscontrato nel cartellone in generale, ma specialmente nel cammino del
binomio De Capitani-Bruni che, attraverso il determinante patrocinio di
Fassbinder, dagli anni romantici dell'autoanalisi generazionale, s'affaccia
ora a un lindore neo-brechtiano, sotto una vernice neoclassica o le ali di
un sound coinvolgente e tremendamente espressivo.."
Così scriveva Franco Quadri su La Repubblica il 30/4/93 e Giovanni Raboni
faceva eco sul Corriere lo stesso giorno:
"Esiste, innegabilmente, un marchio, una linea, una griffe Teatridithalia.
Gli spettacoli firmati in questi anni da Elio De Capitani o dal duo De
Capitani- Ferdinando Bruni incarnano e dimostrano un modo di concepire il
teatro caratterizzato e riconoscibile.
Chi va a vederli sa, dal più al meno, cosa l'aspetta: situazioni e parole
"forti", appena al di qua o decisamente al di là della pornografia;
recitazione senza mezze tinte, anfetaminica, acrilica, con un piede o,
spesso, con entrambe i piedi nella caricatura. Ricorso sistematico
all'amplificazione sonora, con decibel da discoteca, continue citazioni,
esplicite o implicite,, dal linguaggio della TV, del cinema, del fumetto,
da tutte le forme o epifanie dell'estetica multimediale; infine (ed è forse
l'aspetto più significativo, perché confina più direttamente con la realtà
sociale) un'attenzione e un appello costanti al pubblico giovanile, che di
questi spettacoli e diventato di fatto il pubblico tipico e percentualmente
più rilevante"
I due critici tiravano conseguenze opposte alle loro analisi di stile,
sostanzialmente simili anche se con diversi gradi di familiarità con il
mezzo teatrale e quindi con diverse capacità di analisi dello specifico.
Quello che mi interessa far notare è la sottolineatura del rapporto
repertorio/linguaggio/pubblico/realtà sociale che è il vero punto di forza
del nostro percorso.
"Aprirsi del tutto alla vita, l'arte verrà in seguito", come diceva
Antonio Neiwiller. Nasciamo come un teatro segnato da questa scelta, che
esaltato e limitato al tempo stesso la nostra libertà di artisti. Se il
punto di partenza è la vita, soprattutto la vita nelle città, se questi
anni ci hanno sempre visto intenti a scovare ogni volta un frammento della
ragione intima dell'essere umano, essendo coscientemente assai spesso più
sintomi che produttori di analisi intellettuali, se il nostro rapporto la
produzione artistica parte da un accettazione sostanziale del contemporaneo
come dato di fatto (essendo in questo ben diversi da uno dei nostri autori,
da Pasolini per esempio, e più vicini in un certo senso a Heiner Müller) se
siamo stati e siamo ancora quel che siamo, insomma, è perché vogliamo
occupare questo e non altri luoghi dell'arte del teatro.
Senza maestri e senza padri per molti anni, e dalla nostra solo "una
disperata vitalità", così ci siamo fatti adottare da una congrega di
improbabili genitori, di inaffidabili pedagoghi, di parenti terribili.
Affinità incestuose che ci hanno restituito frammenti di noi stessi e del
mondo, che hanno sparso sassolini lungo il sentiero tortuoso verso
un'e(ste)tica teatrale solo nostra: Čechov, Fassbinder, Koltes, Copi,
Wedekind, Pasolini, Berkoff, Fraser, Muller, Williams.
Tornando alla nostra storia, è ovvio che si arrivasse per questa strada,
in fretta, ai due Berkoff, Alla Greca e Decadenze e aRoberto Zucco di
Koltès, tappe fondamentali, insieme ai due Fassbinder, del nostro viaggio.
Ma Koltès e Berkoff ci portarono altrove, a capire che la struggente
necessità del contemporaneo non rispondeva a tutte le nostre domande di
uomini e di artisti: dovevamo aprirci un nuovo varco, che comportava una
apparente contraddizione con la nostra linea artistica. Il varco era
Shakespeare, di nuovo Shakespeare, il primo e il secondo Amleto, un vero
laboratorio permanente che ancora ci chiede lavoro, prove e tentativi, dopo
cinque anni. Poi i Turcs tal Friul di Pasolini, altra tappa
importantissima, non solo per le grandi emozioni che ci ha dato (e ci
continua a dare), non solo per i premi e la critica, ma anche perché i
Turcs prefiguravano il progetto sull'Orestiade di Eschilo, l'avvincente
prospettiva dei prossimi tre anni.
Nel frattempo il repertorio contemporaneo si arricchiva di nuove avventure
e nascevano i Copi di Tango Barbaro e di Capodanno, Madame De Sade di
Mishima, Lola che dilati la camicia, Caligola di Camus, fino al nuovo
Fassbinder, I riufiuti, la città e la morte e altre cose ancora, assieme
alle tournée nazionali e internazionali in Europa, in Messico, in
Colombia, in Argentina. Stiamo parlando degli anni attuali. Venti
spettacoli in repertorio, ancora vivi, tra novità e riprese, tra cui
spettacoli ormai storici come La bottega del Caffé e Le amare lacrime di
Petra Von Kant o come l'ultima edizione del Sogno di Shakespeare, che
meriterebbe un discorso a parte per l'impatto che ha avuto sulle nuove
generazioni di pubblico teatrale e per l'imprevisto risultato di saldarsi
ancor più direttamente alle radici della storia orginaria dell'Elfo,
ripristinandone anche ufficialmente il nome.
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La nostra storia 1973-1998 |
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