La nostra storia 1973-1998


SOLO SEI ANNI FA
Ma fu nel '92 all'atto di unire l'attività di due teatri, Elfo e Portaromana, che il progetto del repertorio prese corpo, dando respiro a quell'idea. Fiorenzo Grassi e Gianni Valle si unirono a noi e dopo lunghe meditazioni scegliemmo il nome di TEATRIDITHALIA Elfo e Portaromana Associati per la nuova realtà che nasceva, un teatro d'arte contemporanea a Milano. Puntavamo su una scelta di linguaggio e di autori, ma anche di spettatori, assai radicale.
Resti umani non identificati di Brad Fraser Partimmo, dopo molte indecisioni, con Resti umani non identificati di Brad Fraser, scegliendo un autore canadese assolutamente sconosciuto ma, secondo noi, in grado di parlare ai giovani milanesi. La critica fu molto diffidente, in alcuni casi addirittura ostile. Il pubblico invase il teatro fin dal primo giorno di repliche. File di giovani andavano a vedere uno spettacolo teatrale come si va a un concerto, il teatro finalmente tornava a riguardarli, anche se il linguaggio non era quello di tutti i giorni e lo spettacolo era anche lungo senza concessioni allo stile "cabarettaro" della scuola dei comici, con cui l'Elfo non aveva più molte relazioni o frequentazioni dopo la diaspora di Salvatores e dei comedians.
Lo stile, la musica, i microfoni, l'immagine venivano direttamente dall'ultima fase dell'Elfo (la firma era la stessa dei due Fassbinder: Bruni/De Capitani) ma i protagonisti erano per la prima volta attori giovanissimi e nuovi - a parte Ida Marinelli a rappresentare il legame con la storia dell'Elfo. Volevamo inaugurare la prima stagione del nuovo teatro trasmettendo la nostra idea di teatro a una nuova generazione di interpreti e ci siamo accorti che inevitabilmente dovevamo parlare anche a una nuova generazione di spettatori. Alcuni di loro scelsero addirittura di far teatro vedendo quello spettacolo, come scoprii io stesso qualche anno dopo, insegnando al corso di regia alla Civica scuola d'arte drammatica Paolo Grassi.
Per un teatro d'arte la formazione del pubblico deve essere un obbiettivo fondante. L'arte del teatro richiede l'arte dello spettatore. Noi facciamo teatro in una città, idealmente la Grande Milano (perché il nostro territorio si spinge oltre città stessa) per formare un pubblico, e non il "successo di pubblico". Un teatro d'arte deve mantenere aperto un conflitto, non può partire dal presupposto di accontentare, di "dare zucchero alla scimmia". Deve quindi scegliere, non rivolgersi a tutto il pubblico indistintamente. Avevamo iniziato a formare un pubblico diverso da quello di tutti gli altri teatri, che si univa allo zoccolo duro del nostro pubblico e faceva nascere un teatro davvero nuovo, a Milano. L'elemento di novità del nostro teatro era nella sua identità -assai lontana dai teatri borghesi tradizionali e dai teatri di puro intrattenimento, ma neppure un teatro d'essai dedicato esclusivamente alla ricerca. Mentre era senz'altro figlio della tradizione di teatro nazional-popolare portato in Italia dal Piccolo di Strehler, ma legato alle sue origini di luogo alternativo, di luogo di confine, di teatro autogestito.

LINDORE NEO-BRECHTIANO, TRASH O FURORE NEO-ELISABETTIANO?
TEATRIDITHALIA voleva assolutamente essere un luogo del teatro del nostro tempo. Dovevamo dargli una riconoscibilità immediata e anche provocatoria, capitalizzando il meglio dell'esperienza di Elfo e Portaromana. Ma l'identità vera del progetto TEATRIDITHALIA dipendeva non solo dalla riconoscibilità degli attori e dei registi, aggiungerei anche del suo pubblico, del suo repertorio e soprattutto del suo nuovo linguaggio teatrale:

"Una sigla o un linguaggio? (...) TEATRIDITHALIA (...) va evidenziando di spettacolo in spettacolo l'approdo inusuale e vitale a una linea: lavoro sulla contemporaneità, recitazione stilizzata, gioco insistente sul teatro, approccio trasgressivo alla realtà con punte giovanilistiche. Lo si è riscontrato nel cartellone in generale, ma specialmente nel cammino del binomio De Capitani-Bruni che, attraverso il determinante patrocinio di Fassbinder, dagli anni romantici dell'autoanalisi generazionale, s'affaccia ora a un lindore neo-brechtiano, sotto una vernice neoclassica o le ali di un sound coinvolgente e tremendamente espressivo.."

Così scriveva Franco Quadri su La Repubblica il 30/4/93 e Giovanni Raboni faceva eco sul Corriere lo stesso giorno:

"Esiste, innegabilmente, un marchio, una linea, una griffe Teatridithalia. Gli spettacoli firmati in questi anni da Elio De Capitani o dal duo De Capitani- Ferdinando Bruni incarnano e dimostrano un modo di concepire il teatro caratterizzato e riconoscibile.
Chi va a vederli sa, dal più al meno, cosa l'aspetta: situazioni e parole "forti", appena al di qua o decisamente al di là della pornografia; recitazione senza mezze tinte, anfetaminica, acrilica, con un piede o, spesso, con entrambe i piedi nella caricatura. Ricorso sistematico all'amplificazione sonora, con decibel da discoteca, continue citazioni, esplicite o implicite,, dal linguaggio della TV, del cinema, del fumetto, da tutte le forme o epifanie dell'estetica multimediale; infine (ed è forse l'aspetto più significativo, perché confina più direttamente con la realtà sociale) un'attenzione e un appello costanti al pubblico giovanile, che di questi spettacoli e diventato di fatto il pubblico tipico e percentualmente più rilevante"


I due critici tiravano conseguenze opposte alle loro analisi di stile, sostanzialmente simili anche se con diversi gradi di familiarità con il mezzo teatrale e quindi con diverse capacità di analisi dello specifico. Quello che mi interessa far notare è la sottolineatura del rapporto repertorio/linguaggio/pubblico/realtà sociale che è il vero punto di forza del nostro percorso.
"Aprirsi del tutto alla vita, l'arte verrà in seguito", come diceva Antonio Neiwiller. Nasciamo come un teatro segnato da questa scelta, che esaltato e limitato al tempo stesso la nostra libertà di artisti. Se il punto di partenza è la vita, soprattutto la vita nelle città, se questi anni ci hanno sempre visto intenti a scovare ogni volta un frammento della ragione intima dell'essere umano, essendo coscientemente assai spesso più sintomi che produttori di analisi intellettuali, se il nostro rapporto la produzione artistica parte da un accettazione sostanziale del contemporaneo come dato di fatto (essendo in questo ben diversi da uno dei nostri autori, da Pasolini per esempio, e più vicini in un certo senso a Heiner Müller) se siamo stati e siamo ancora quel che siamo, insomma, è perché vogliamo occupare questo e non altri luoghi dell'arte del teatro.
Senza maestri e senza padri per molti anni, e dalla nostra solo "una disperata vitalità", così ci siamo fatti adottare da una congrega di improbabili genitori, di inaffidabili pedagoghi, di parenti terribili. Affinità incestuose che ci hanno restituito frammenti di noi stessi e del mondo, che hanno sparso sassolini lungo il sentiero tortuoso verso un'e(ste)tica teatrale solo nostra: Čechov, Fassbinder, Koltes, Copi, Wedekind, Pasolini, Berkoff, Fraser, Muller, Williams.

Decadenze Alla Greca Tornando alla nostra storia, è ovvio che si arrivasse per questa strada, in fretta, ai due Berkoff, Alla Greca e Decadenze e aRoberto Zucco di Koltès, tappe fondamentali, insieme ai due Fassbinder, del nostro viaggio. Ma Koltès e Berkoff ci portarono altrove, a capire che la struggente necessità del contemporaneo non rispondeva a tutte le nostre domande di uomini e di artisti: dovevamo aprirci un nuovo varco, che comportava una apparente contraddizione con la nostra linea artistica. Il varco era Shakespeare, di nuovo Shakespeare, il primo e il secondo Amleto, un vero laboratorio permanente che ancora ci chiede lavoro, prove e tentativi, dopo cinque anni. Poi i Turcs tal Friul di Pasolini, altra tappa importantissima, non solo per le grandi emozioni che ci ha dato (e ci continua a dare), non solo per i premi e la critica, ma anche perché i Turcs prefiguravano il progetto sull'Orestiade di Eschilo, l'avvincente prospettiva dei prossimi tre anni.
Nel frattempo il repertorio contemporaneo si arricchiva di nuove avventure e nascevano i Copi di Tango Barbaro e di Capodanno, Madame De Sade di Mishima, Lola che dilati la camicia, Caligola di Camus, fino al nuovo Fassbinder, I riufiuti, la città e la morte e altre cose ancora, assieme alle tournée nazionali e internazionali in Europa, in Messico, in Colombia, in Argentina. Stiamo parlando degli anni attuali. Venti spettacoli in repertorio, ancora vivi, tra novità e riprese, tra cui spettacoli ormai storici come La bottega del Caffé e Le amare lacrime di Petra Von Kant o come l'ultima edizione del Sogno di Shakespeare, che meriterebbe un discorso a parte per l'impatto che ha avuto sulle nuove generazioni di pubblico teatrale e per l'imprevisto risultato di saldarsi ancor più direttamente alle radici della storia orginaria dell'Elfo, ripristinandone anche ufficialmente il nome.



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