Note di regia - La bottega del caffè


Su Fassbinder

Ma se l'opera cinematografica di Fassbinder, alla luce della sua produzione degli ultimi anni, è oggi assai meno controversa, il teatro, rimasto ai primi esperimenti del suo gruppo, l'Antiteater, è invece oggetto di una sostanziale quasi unanime minimizzazione, soprattutto da parte dei tedeschi stessi.

Non abbiamo mai condiviso questa opinione, pur riconoscendola non del tutto infondata. La prima, entusiasmante esperienza con Le amare lacrime di Petra von Kant ci ha messi a confronto con un nodo della questione: l'esperienza radicale dell'Antiteater è intrecciata, come tutte le esperienze di gruppo, a mille contraddizioni, non ultima quella tra intenzione e mezzi, tra testo e messa in scena. Noi, che conosciamo l'esperienza dell'Antiteater solo attraverso testimonianze critiche sugli spettacoli, a volte firmati in coppia con Peer Raben, godiamo tuttavia di un rapporto "vergine" con i testi, non inquinato dal sostanziale senso di fastidio che da queste testimonianze spesso traspare per lo stile degli spettacoli, sovente immersi in quell'atmosfera radicalmente rarefatta e rallentata che troverà in seguito una forma compiuta nella sua opera cinematografica anche attraverso quella specie di disincanto straniato che è il tocco caratteristico dei suoi attori. Siamo convinti che un giudizio più equilibrato sui testi teatrali di Fassbinder può nascere solo da nuove messe in scena, libere dai vincoli stilistici del Fassbinder regista e interessate al Fassbinder autore.

Un nuovo Fassbinder vuol dire ripartire anche dalla bellissima esperienza di Petra von Kant, ma Kaffeehaus per noi significa anche qualcos'altro. Dopo l'immersione autoanalitica iniziata con Visi noti e terminata con Creditori, attraverso Il lago e altre paludi di accidia generazionale, forse punzecchiati dall'ironia greve del Valerio di Leonce e Lena, sedotti dalla teatralità eccessiva della diabolica coppia di Quartetto, e approdati infine alla ricerca di uno stile che coniugasse astrazione e concretezza, "superficie" e "profondità" indossando le maschere del Risveglio di primavera, è arrivato prepotente il desiderio di fare i conti con un linguaggio teatrale che legge l'uomo attraverso la lente impietosa della comicità e del sarcasmo: è arrivata la voglia di mettere in scena una commedia. Così il microcosmo che si agita attorno alla veneziana Bottega del caffè e che intesse miseri traffici, sordidi affari, maldicenze meschine, il corteo di finti conti, finte ballerine, finti ingenui, ladri, calunniatori, giocatori, bari e giovani prede da spennare orchestrato da un Goldoni preoccupato tuttavia di concludere con un esito morale la vicenda, fa il suo ingresso al Teatro dell'Elfo accompagnato da un Fassbinder insolitamente privo di pietà e più che mai "morale" nell'indicare attraverso i piccoli mali di questa piccola società i mali grandi della grande società.

A noi il compito di scandire i tempi di questa macabra e a volte malinconica "opera buffa", di immergere nella grande vasca d'acqua fangosa (la nostra Venezia), che davanti a un lungo sipario corroso dal tempo e dall'umidità delimita lo spazio della rappresentazione, un piccolo universo di personaggi che, al di là della loro capacità di divertirci o di appassionarci alle loro discutibili passioni, raccontino degli eterni vizi dell'uomo e insieme dei nostri, spesso sbiaditi, peccati capitali.


La trama

Un conte (finto) spenna ormai fino "alle mutande e ai bottoni" un giovanotto di famiglia bene, il signor Eugenio, che impegna persino gli orecchini della giovane e disperata moglie pur di tentare una rivincita. Il conte (fintissimo) con i proventi del gioco mantiene e "nobilita" una "ballerina" dal passato (prossimo) assai meno artistico, che vuol farsi sposare per diventare contessa e disdegna quindi le profferte di un vecchio cliente, Don Marzio, malalingua titanica e parassitaria che esercita dal tavolino della bottega del caffè di cui al titolo, occupata da mane a sera in virtù dell'unico caffè-alibi ordinato la mattina di buon'ora.
Il caffè dà su una piazzetta circondata da un lato dalla casa della "ballerina" Lisaura e dall'altro dalla casa da gioco losca e ambigua gestita da Pandolfo, intrigante e truffatore, che ha un lussurioso debole per Vittoria, la giovane e disperata moglie di Eugenio, che vuole a tutti i costi nella sua casa da gioco per attirare e intrattenere i clienti. Veglia su tutti Ridolfo, proprietario della bottega del caffè e il suo vecchio servo Trappolo, che ricorda, nello sviluppo della vicenda, il protagonista di Il diritto del più forte, interpretato dallo stesso Fassbinder nel film del 1974.

All'arrivo di Placida, la moglie del finto conte Leandro, Fassbinder ribalta lo sviluppo goldoniano trasformando con grande ironia i ruoli femminili da assai passivi in motori della vicenda. Durante una festa, Vittoria, istruita da Placida, civetta con Pandolfo, accettando le sue offerte sotto gli occhi allibiti del marito inebetito dalla trasformazione edlla ragazzina di buona famiglia in una femmina scaltra e intrigante. Lisaura porta con sé, per vendicarsi dell'amato bugiardo, un suo "cugino", che in realtà non è altro che Placida travestita da uomo che dapprima fa la corte a suo marito, annichilendolo con i suoi stessi mezzi, e poi rivela gli inganni facendo nascere una gigantesca rissa.

Ultimo atto: Ridolfo e Trappolo sistemano il caffè dopo la battaglia. Leandro cerca rifugio da Lisaura che lo respinge; da Pandolfo che fa altrettanto, rivelandogli per giunta che le sue vincite al gioco erano guidate. Respinto anche da Ridolfo ottiene aiuto per la fuga (a pagamento) da Don Marzio, che però, come sua abitudine, rivela istantaneamente tutto a quelli che passano di lì. Don Marzio supera ogni limite: denuncia Pandolfo alla polizia per brogli; senza che nulla accada deruba Trappolo di tutti i suoi risparmi - un consistente gruzzolo di dollari - con la scusa di sottrarre Eugenio e la moglie Vittoria al loro destino (ma Vittoria è ormai padrona della casa da gioco, perfettamente a suo agio nel ruolo e con il consenso del ringalluzzito Eugenio). Alla fine Don Marzio viene circondato minacciosamente da tutti in un preludio a un linciaggio da far-west, mentre Placida riconduce il riacchiappato marito che le giura eterno amore.

Il denaro

Al centro di tutto, i soldi. Non c'è occasione in cui non se ne parli e appena se ne parla tutti calcolano velocemente il cambio degli zecchini in dollari, sterline e marchi, mentre una delle rarissime didascalie concesse da Fassbinder parla di "rumore di soldi" amplificato all'inizio dello spettacolo.

1991, Ferdinando Bruni Elio De Capitani


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