Note di regia - I rifiuti, la città e la morte


La paura mangia l'anima

Una città che si trasforma appena terminata la guerra. Il freddo, la fame, donne che si prostituiscono per sopravvivere, ex-nazisti che cantano travestiti nei locali notturni, i bellissimi personaggi di A., di Roma B., di Franz B. e di Oscar De Dolore e l'intreccio ineludibile dei loro destini.
La città ha bisogno di un imprenditori senza scrupoli che le dia la possibilità di trasformarsi e crescere. Uno di questi è A., ricco e spregiudicato. Compra vecchie case, le fa demolire, ne costruisce di nuove e le vende.. I piani per la ristrutturazione della città però non li ha fatti lui, ma il sindaco e le autorità cittadine. Con loro ha un patto di ferro. Senza stima nè rispetto, e senza un briciolo di passione, un patto di convenienza reciporca.
Perché lui è ebreo e un ebreo è intoccabile nella Germania del dopoguerra. Perché un intero popolo si è svegliato dal suo letargo, l'indomani della vittoria degli alleati, "scoprendo" sei milioni di morti nei campi di sterminio, quasi tutti ebrei. Nessuno ha mosso un dito per fermare treni che trasportavano vicini di casa, compagni di scuola, amici. La zona grigia del silenzio che diventa acquiescenza e complicità è messa di fronte alle sue responsabilità dalle proporzioni stesse dell'Olocausto, dalla sua macchina burocratica precisissima e puntuale La reazione dei tedeschi nel dopoguerra è stata di rendere l'antisemitismo un tabù. Col rischio di impedire che i luoghi comuni dell'antisemitismo affiorassero alla luce, lasciandoli a covare nei recessi più bui dell'anima germanica.
Fassbinder rompe il tabù, e fa parlare nel suo testo assieme alle puttane, ai protettori, agli omossessuali, assieme ai bassifondi dell'umanità anche poliziotti e rispettabili borghesi, un travestito nazista, un imprenditore ebreo ricco e un imprenditore suo concorrente che è il prototipo popolare di ogni antisemita viscerale.
Fassbinder, complice Roma B., la protagonista della pièce, svela dietro la facciata di ipocrisia, i loro pensieri più nascosti e inconfessabili. Roma B. ha questa funzione: accoglie dentro di sé tutto il marcio che c'è in fondo all'animo umano. Tutti si confessano davanti a lei, lei non chiede nulla e tutti le vomitano addosso i loro pensieri. Pensieri che può essere molto doloroso ascoltare su un palcoscenico, ma che non sono certo il pensiero dell'autore. A parlare sono personaggi che esprimono qualcosa, che, sottotraccia, si è annidato per anni nella società tedesca fino a venire allo scoperto con i movimenti neonazisti, movimenti che hanno avuto persino successi elettorali, per fortuna non determinanti. Qualcosa che ha a che fare anche con le complicità nascoste per le fughe dei gerarchi nazisti in Sud America e con il permanere del germe non solo tra funzionari e pubblici ufficiali ma anche tra esponenti della società civile, come amiamo dire oggi

Dunque Fassbinder ci racconta di A., un uomo d'affari come tutti, uno speculatore. Ma A è ebreo e quindi intoccabile: dunque il lavoro sporco lo faccia lui, come del resto è sempre successo agli ebrei per secoli, nei paesi cristiani.
A. è lucidamente cosciente della sua condizione di sfruttatore e sfruttato, di complice e di vittima. Vive intensamente la sua condizione, assapora la vita che scorre con la disperazione di chi sa che non potrà mai rifarsi di una sofferenza interiore smisurata.
Ma nella sua mente, lucido e vago al tempo stesso, cova un piano di vendetta. Il suo strumento sarà Roma B., la più disgraziata delle puttane delle città, la più magra e affamata, la più infreddolita e malata.
Roma è all'incrocio di tutte le storie del dramma. Figlia di due Germanie, ha una madre su una carrozzella che legge sempre Lenin e Marx e un padre nazista, per nulla pentito, che si guadagna da vivere travestendosi e cantando canzoni di Zarah Leander. E ha una protettore, Franz B., un proletario: il suo crudele, spietato eppure amatissimo amore: la picchia ogni giorno, poichè la ama, e vuole sapere tutto dei suoi rapporti con i clienti, fino ai dettagli più morbosi. Roma e Franz si amano come spesso ci si ama nei film di Fassbinder: lasciando lividi sulla pelle e nel cuore.
Il giovane Fassbinder non è mai stato interessato a nulla di ciò che è realismo o naturalismo. La sua è un arte di grandi sintesi soggettive, una forma trattenuta di espressionismo raggelato, dove il caldo del melodramma è gemello del freddo di una recitazione straniata e spesso quasi impersonale. Il risultato è una rappresentazione implacabile della realtà attraverso una specie di personalissima sintesi epica. I rifiuti la città e la morte è certo una delle tappe più rappresentative di una poetica che sta all'origine di capolavori come Berliner Alexanderplaz e Querelle.

Dunque l'intoccabile, l'ebreo ricco, prende per amante la figlia del nazista, la fa ricca e stimata, tutti vogliono lei, è la puttana più richiesta di tutta la città. L'ebreo, scegliendola, ne ha fatto un oggetto di lusso. La sua camera da letto diventa un confessionale terribilmente blasfemo dove tra psicanalisi e confessione, uno dei clienti vomita il suo antisemitismo cupo e paranoico e grida la colpa peggiore, per un ebreo: essere sopravvissuto e ricordare ai tedeschi quello che è accaduto! "La colpa è dell' ebreo, perché lui ci rende colpevoli per il solo fatto di essere tra noi. Se fosse rimasto là doce è venuto, o se gli avessero dato il gas, io oggi dormirei meglio."

Il monologo di questo antisemita sfiora i limiti della sopportabilità ma in scena quel personaggio sfiora il tragicomico. Insopportabile è riconoscere in quel personaggio la malattia dell'anima di molti popoli, mai sopita, che torna con arroganza nei discorsi da bar e sul treno: ma è di questo che si parla, della malattia. L'antisemitismo è vigliacco e si occulta, ma vive, illudendoci di non esistere. Fassbinder gli ha strappato la maschera e ha scatenato un putiferio.

È impossibile per noi avere un opinione esatta sulle polemiche che in Germania hanno accompagnato e accompagnano questo testo. Occorrerebbe avere coscienza e opinione su molti fatti che non possiamo invece conoscere. Dobbiamo quindi pensare che si tratta,una volta di più, di una questione controversa, dove c'è ragione anche senza il torto della parte avversa, e questo vale per tutte e due le parti. La questione ha il peso di una vicenda tragica e irredimibile.
Come registi e uomini di teatro, Ferdinando Bruni e io abbiamo sempre amato questo testo. Non l'abbiamo messo in scena fino a ora per maturare bene la riflessione sulla forma ma anche sui temi, così laceranti di questo lavoro di Fassbinder. Ci fu un momento in cui, di nostra iniziativa, lo togliemmo dal programma: era il '93 e l'ingresso dei post-fascisti nel governo Berlusconi (post da pochissimo e con un travaglio piuttosto rapido e sbrigativo) aveva alimentato un clima di revisionismo storico arrogante e semplicista. Quel clima ci spaventava, e spaventò l'Italia. La manifestazione del 25 aprile mise fine di colpo al momento più crudo di quella fase. Decidemmo comunque di riflettere e due anni fa ripartimmo con una lettura pubblica che ci diede la certezza del valore artistico del testo e dell'infondatezza dei sospetti di antisemitismo, viste anche le reazioni del pubblico e di molti amici.

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Torniamo alla storia. Roma è ricca e puttana famosa, assai più stimata di quando si prostituiva per due soldi sulla strada. Franz però non riconosce più in quella donna di lusso la sua Roma, quella del freddo della fame e delle botte. Come si fa a picchiare una così superiore, una che ti riempie di soldi e di bei vestiti, che cambia casa e sfascia automobili come niente fosse. Quella Roma lì Franz non la ama. E così Franz se ne va via, l'abbandona. . Proprio ora che Roma ha più che mai bisogno di lui. Ma Franz ha cessato di amarla, per tutti quei motivi e per un altro ancora. Ha scoperto di amare un uomo: il giovane Oscar De Dolore, figlio di un uomo che fa affari con l'ebreo.
E in un rito blasfemo che sta al centro della pièce l'intreccio delle vicende arriverà al suo inevitabilmente tragico scioglimento. Tutti i personaggi si ritrovano in un locale dove èpronta la trappola organizzata da A. Roma vedrà suo padre cantare travestito e saprà quello che non sapeva del suo passato di assassino nazista. Vedrà Franz baciare Oscar e finire linciato, in una paraodia di martirio da povero cristo, crocefisso, impalato e ribattezzato nel suo nuovo stato di passività totale. Fra gli officianti, il capo della polizia, sotto lo sgurdo fredo di A. e qullo disperato di Roma. Roma sarà ripudiata dalle altre puttane, che la malediranno perché è passata dalla parte degli uomini, ha tradito il suo sesso e le sue sorelle. Tutto questo vedrà Roma e non potrà sopportarlo: in una preghiera dolente e violentemente esausta di rivolta contro Dio e il mondo, deciderà di abdicare, di filarsela, di lasciare la vita, la vita in quella città-mutante, fredda e deserta come la luna. Roma vuole trasformarsi nella vittima che col suo sacrificio espia e redime tutto il dolore della città.
Ma nessuno ha pietà di lei, nessuno è disposto a ucciderla. Neppure l'ultimo della terra, un' emigrante turco o un sottoproletrario ai gradini più bassi della società ha tempo per lei. Solo A. accetterà l'incarico, contro ogni suo principio. La strangolerà con la sua cravatta di seta e il suo servo, che assiste al delitto, capirà il senso di quel gesto e camminando sulle ginocchia per la gioia griderà:
"Oh mio Dio, ti ringrazio. L'ha uccisa, e si è squalificato con le sue mani. È chiaro, l'amava. E chi ama ha già perzso i propri diritti" "Each man kills the thing he loves" cantava Jeanne Moreau in "Querelle". Il servo ora infedele riferisce tutto al capo della polizia: vuole il posto del padrone e quindi vuole il padrone in galera. Ma la città vuole qualcos'altro: il suo intoccabile ebreo è troppo utile. Il delatore viene defenestrato, l'ebreo proclamato innocente in tutta fretta grazie alla falsa testimonianza compiacente dell'altro servo, il sarcastico e lucido nano,la colpa dell'assassinio gettata sulle spalle dello screditato Franz B. il frocio designato quale capro espiatorio.

Il senso di questa epopea, di questa ballata dal titolo strano e inquietante non è quello di una blasfema antiparabola: è la vita stessa a non sopportare buone novelle, in questo secolo di massacri locali e di guerre modiali, di stermini premeditati e pulizie etniche. La malattia è dentro l'uomo, è nella sua violenza originaria che lo oppone alla donna, agli altri uomini, e, prima di tutto, a chi ama.
Mi sono spesso chiesto come mai ho amato e amo Fassbinder assai più di molti autori universalmente più stimati di lui. Lo amo come Pasolini, ecco, e come lui amo forse solo Shakespeare e Koltes. Perché.
Si è molto dibattuto sul tragico in questo secolo, se il tragico sia ancora possibile o non più, oppure sulla sostanza ultima del tragico stesso. Una delle definizioni più belle del tragico ha a che fare con l'impossibilità di scegliere il bene e di essere costretti tra due mali. Credo che sia questo che intuisco essermi assai vicino nel lavoro di un artista come Fassbinder: la sua capacità di guardare a quanto di realmente tragico, irriducibilmente senza speranza di ricomposizione, a quanto di inconciliabile con l'idea del Bene ci è toccato vivere su questo pianeta nel secolo appena trascorso. Questo sguardo non nega la felicità, non giudica gli uomini né li assolve: ci mette di fronte alle cose come sono, nei loro momenti più drammatici.

La lezione di Fassbinder è forse più nichilista di quanto io non sia disposto ad ammettere, d'altra parte non faccio fatica a fare questi stessi conti con il pessimismo finale di Pasolini. Il loro personale esperimento di vita è finito tragicamente, ma il lascito della loro opera è un lascito amorevole e pietoso che ci commuove intimamente perché è di certo dedicato a noi, ci parla direttamente e non si chiude in una cornice autoreferenziale, come succede troppo spesso all'opera di altri artisti, anche importanti.
  Guardare dentro lo specchio che ci ha fornito un autore complesso e anarchico come Fassbinder ci può aiutare a non illuderci, a sentire continuamente il nostro stesso dolore di vita in altri uomini, persone diverse da noi, che la vita ha messo in altre condizioni. Arrivando alla sola conclusione possibile: occorre vivere qui e ora la nostra vita senza infingimenti o illusioni, senza futuri palingenetici che non sono certo dietro ogni angolo, occorre liberare la mente dai concetti e dalle ideologie che ci consolano con l' apparente razionalità di un pensiero utopistico o di un realismo capitalista altrettanto privo dirispetto per la sostanza della vita umana. Bisogna imparare che vivere significa venire a patti con l'orrore dentro di noi, e nello stesso modo con quello che di buono c'è in noi. Capire la vita e fare un patto con il dolore e con la morte ci rende forti e capaci. E l'arte ci può accompagnare e aiutare in questo percorso rigoroso e esaltante.

Ferdinando Bruni e Elio De Capitani, Novembre 1998.

Note di regia - La bottega del caffè