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"Nulla può essere unico e completo
se prima non è stato lacerato"
E così, piano piano, è emersa l'immagine di un luogo, di uno spazio per
l'incontro e per la rappresentazione. Prima l'idea di un teatro anatomico,
poi una passerella per far sfilare i nostri personaggi, esposti da tre lati
agli sguardi di un pubblico chiamato a testimoniare e condividere, un
pubblico a volte illuminato, che potesse vedersi essere pubblico e cioè
testimone. Uno spazio che inscrivesse la figura di Petra in fughe
prospettiche che non dessero scampo alla sua centralità, al suo essere
esposta come un mostro o un esempio, linee che accompagnassero lo sguardo
verso di lei, sguardi guidati dallo sguardo di Marlène, testimone adorante
(forse complice?), personaggio che indica la scena, come in molti quadri
c'é qualcuno che guarda noi guardare e accompagna il nostro sguardo col
gesto della mano. E con quel gesto, che apriva lo spettacolo, avviene la
frattura: per la prima volta chi sta sul palco sa, e non vuole nasconderlo,
che qualcuno lo guarda, accetta quello sguardo, lo asseconda. Petra si alza
dal suo sonno agitato, si avvicina al limite del palco e anche lei vede chi
la sta guardando. Con un gesto stanco chiede che sia chiuso il sipario. Non
si sente pronta, forse è troppo presto, o forse la ferita è troppo fresca:
non vuole raccontare la sua storia a gente sconosciuta. Ma il sipario si
blocca, non si chiude. E oltre tutto è un sipario trasparente. Le pareti
della casa di Petra sono muri solidi, ma sono i muri del nostro
palcoscenico. Così il racconto deve incominciare. I gesti del risveglio,
l'incontro con l'amica, disegnati ricalcando i gesti di cento personaggi di
Guido Reni, Caravaggio, Piero, sono i gesti del nostro Kabuki, del nostro
Katakali, del No che non abbiamo. Attingiamo da loro a piene mani per
costruirci un codice di movimenti che non siano reali, ma che parlino a chi
ci sta guardando con un'altra nitidezza, un'altra forza. Karin, l'amante
trovata in mezzo al pubblico, una qualunque, una come tante,
(l'innamoramento è una caduta di difese immunitarie che attacca e
trasfigura chi gli pare) sale sul palco, entra nella storia e vi porta
altri gesti, altre canzoni. I gesti delle foto sui giornali di moda, quelli
dei film d'amore ( film d'amore, passionali, roba così.), dei fotoromanzi.
E canzoni cantate a piena voce, che parlano di amori sfortunati e totali.
Controcanto volgare alla solennità patetica di Bach.
Prima, però, c'era stato un momento che anticipa e riassume il nostro
teatro di questi ultimi otto anni.
Petra racconta a Sidonie, un'amica, la fine amara del suo secondo
matrimonio. Inizia a raccontare seduta su un divano come in una qualsiasi
"sophisticated comedy", poi si alza, si avvicina a un microfono e ci parla:
questo è il momento in cui silenziosamente, senza far più rumore della
pagina di un libro che si volta, cade per noi, definitivamente, ogni quarta
parete. Petra sta compiendo un sacrilegio sotto gli occhi esterrefatti
dell'amica, Marlène accenna un passo per fermarla: ma è troppo tardi, il
personaggio del quadro compie il primo passo fuori dalla cornice, scende
fra noi che siamo spettatori. Parla a un microfono, come una cantante, come
qualcuno che traduce in emozione segni codificati - uno spartito, un testo
- il microfono amplifica il suono della voce, rimanda in primo piano il
rumore delle labbra, della lingua, del respiro, la sensualità fisiologica e
impudica della parola detta, ma è nello stesso momento un mezzo tecnico,
un artificio, un filtro. Ida Marinelli sta vivendo la vicenda di Petra e
nello stesso tempo rende a tutti evidente che sta anche recitando, cioè
rappresentando. Questo momento di estrema verità e di estrema finzione è il
manifesto di quel che abbiamo fatto negli anni successivi.
" Poichè ogni azione umana è un labirinto
così siano intrecciate le vostre danze "
Intorno a questa emozione, a questa verità, raggiunte usando un mezzo
tecnico, e quindi un artificio dichiarato, una maschera, un trucco, ci
siamo interrogati attraverso quindici spettacoli ( per noi purtroppo e per
ora, tempo di ricerca e tempo di produzione sono una cosa sola)
avvicinandoci e a volte allontanandoci dal cuore del problema come in un
labirinto.
Chi è l'attore e qual è il suo ruolo ( se poi ce l'ha) in questa nostra
frantumata, rumorosa, deprimente e distratta società. A quale immagine
potremmo mai aggrapparci noi, antropologi di noi stessi, per raccontare a
chi non sa, chi è questa figura da secoli oscillante fra il ridicolo e il
sublime e qual è poi la sua funzione nel mondo : indossatore di anime?
piazzista di sentimenti? sacerdote? sciamano? buffone? Chi è l'attore
teatrale, quali sono le energie misteriose che lo attraversano da millenni,
quali conflitti è stato chiamato a rappresentare prima ancora che esistesse
il rito, prima della danza mitica dei capri ( lo scontro fra gli uomini e
gli dei, fra i drammi individuali e gli imperativi della comunità, fra le
vecchie generazioni e quelle giovani, fra i vivi e i morti, fra gli uomini
e le donne?), che cosa fa in modo che persino oggi degli uomini sentano il
bisogno di riunirsi attorno ad altri uomini in un rito forse squalificato,
ma tuttavia percorso a tratti da lampi di disperata vitalità. E di
necessità. Il compito ultimo che ci dobbiamo dare credo sia, in fin dei
conti, quello di cercare la "nostra" risposta a questi interrogativi.
Perchè non esistono metodi, ma soltanto domande, e non esistono purtroppo
nemmeno codici morali in cui trovare conforto. Abbiamo visto tante volte
attori santi comunicarci solo falsa coscienza e narcisismo e divine
puttane, maddalene vendute al pubblico e al mercato, spendersi fino in
fondo, darsi completamente, abbiamo visto brechtiani commoventi,
stanislskjani frigidi, mattatori indifesi, grotowskiani arroganti. Il
segreto é nell'atto, non nella preparazione, è nell'ora e nel qui, è nella
meraviglia che accompagna l'emozione dell'incanto sublime di cui parla
Zeami, è indicibile: è appunto un segreto. "Il meraviglioso è
l'ineffabile, è il punto in cui il cammino del pensiero si distrugge."
Tutti i "metodi" si arrestano ai piedi di questa scogliera misteriosa, dove
quello che si sa o che si è capito non si può più dire con le parole: il
segreto è nel pathos, non nel logos.
Ma è nostro dovere interrogarci sempre davanti a questa soglia chiusa,
ripercorrere testardi per infinite volte l'immenso labirinto in cui è
nascosta.
Affinare la nostra tecnica instancabilmente, essere implacabili con gli
altri e con noi stessi, affilare le nostre armi e la nostra mente. Sperare
che la porta si apra, che il margine di mistero si assottigli.
E continuare a dire le parole che altrove non si dicono, raccontare l'uomo
del nostro tempo, raccontare i suoi "incerti, dolorosi passi, mentre si
avvicina - o si discosta smarrito - alla sua verità, alla sua bellezza e al
suo Dio."
Senza essere schiavi del nostro tempo, viverlo fino in fondo, condividerlo,
ma ricordare sempre che il teatro è attraversato da un torrente
sotterraneo, misterioso, che ha percorso i millenni, che viene da lontano,
da una zona segreta del cuore antico dell'umanità.
Ferdinando Bruni Elio De Capitani
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Note di regia - Le amare lacrime di Petra von Kant |
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