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DIVAGAZIONI A MARGINE DI UNA COMMEDIA (1991)
Viviamo davvero in tempi bui.
Dieci anni sono passati dalla morte di Fassbinder; qualcuno di più dalla
morte di Pasolini. L'influenza che questi uomini hanno avuto su di noi è
stata diversa: molto, forse non abbastanza, Pasolini; un po' meno
Fassbinder, tedesco, autore soprattutto di cinema, non poeta, non
scrittore. Ma una cosa li ha uniti, almeno ai nostri occhi: l'idea della
necessità di trasformare tutta la propria vita in un'opera. Un'idea che ha
un fondamento etico in Pasolini, e un fondamento istintivo, animale,
vitalistico in Fassbinder.
Vi è una grande differenza, però, fra l'opera di Pasolini maieuta, maestro,
e quella di Fassbinder, all'opposto, antimaestro, uomo della produzione
istantanea, della creazione, dell'intuizione. Eppure qualche cosa
saldamente li unisce.
In quest'epoca piuttosto oscura, in cui bisogna ricostruirsi la possibilità
di guardare il mondo resistendo alla forza che vuole cacciarti lontano,
indagare su Fassbinder e su Pasolini significa riscoprire degli altri
sguardi, degli altri punti di vista. Prima che tutto questo accadesse, che
tutto cambiasse, che si arrivasse a questa civiltà del "dopo" - dopo muro,
dopo guerra fredda, dopo golfo, dopo tante coseä-, è importante poter
cogliere questi semi anteriori, importante poter vedere l'oggi con quegli
occhi di ieri che sapevano così bene illuminare alcuni dettagli che
apparivano insignificanti e oggi sono così importanti.
È un'epoca in cui le cose muoiono per poter rinascere.
Fassbinder è stato spesso accusato di non avere una cultura politica, di
essere forse un po' qualunquista. Ai tempi di Lilì Marlene il suo
atteggiamento verso il nazismo è apparso pericolosamente equidistante tra
l'attrazione e la repulsione, ma in una maniera molto diversa da altri
autori. Fassbinder aveva in questo suo non lasciarsi contaminare dalla
superficialità dei giudizi politici di allora una grande forza; aveva una
grande forza nell'indagare nella realtà, nell'indagare nell'al di là di
questa realtà che molti degli slogan politici di allora occultavano, invece
che rivelare. Ecco, in fin dei conti, La bottega del caffè può essere anche
considerato un pezzo di teatro politico, o quanto meno un pezzo di teatro
fortemente critico nei confronti della società. Ma questa è l'apparenza,
perché in realtà, come sempre, all'interno di tutti i lavori di Fassbinder
il centro è l'uomo. Come disse nell'orazione funebre Douglas Sirk: "l'uomo
in tutta la sua vulnerata grandezza". Vulnerata da una malattia che lo mina
e che lo fa sempre essere soggetto a qualche cosa, a qualcuno, a qualche
passione; che non lo fa vivere di se stesso, ma sempre di questo
soggiacere, di questo dipendere, di questo star male. Qualcuno ha avanzato
l'idea che tutta l'opera di Fassbinder fosse una terapia della sua anima
malata. Se questo sia vero o no, per Fassbinder, come per tanti altri
artisti, non ha nulla a che vedere con il risultato della sua opera. Perché
il risultato sicuramente non è terapeutico. Si resta sempre senza una
risposta di fronte alle violente argomentazioni della vita e delle storie
come ce le ha raccontate Fassbinder. Non c'è una risposta, non c'è una
pacificazione, non c'è un esser contro o a favore di qualcosa. C'è questo
serpente che si attorciglia e, come dice ironicamente Eugenio, "quel lupo
che è la vita mi ha rapito la gioia per sempre"; oppure, come dice Lisaura,
"la vita è così crudele che costringe le ragazze ad avere di questi
pensieri". E così arriviamo a questa Bottega del caffè introdotta da queste
due frasi.
Ne La bottega del caffè tutti i temi di Fassbinder sono portati a un grado
di estrema durezza e al tempo stesso di enorme leggerezza. C'è tutto: ci
sono i temi della Petra, ci sono i temi del film Il diritto del più forte
(l'ultima e forse più importante interpretazione di Fassbinder), i temi di
Berliner Alexander Platz (non a caso i protagonisti di questi due ultimi
film citati si chiamano Franz Biberkopf e hanno una strettissima parentela
con il nostro Trappolo)... … veramente un microcosmo goldoniano trasformato
in un luogo che raccoglie tutte le ossessioni di Fassbinder, tutti i
frammenti della sua carnalità poetica in forma di commedia. L'Elfo, in
questa sua ricerca su Fassbinder, ha teso a dimostrare che il teatro del
regista tedesco ha forza e valore di per sé. Non è il cinema che lo ha
illuminato, non è un teatro minore. C'è una grande forza che lo accomuna,
sempre per citare Douglas Sirk, a Calderon, a Lope de Vega, agli
elisabettiani. Non solo per l'opera cinematografica ma anche per quella
teatrale. E questo adattamento de La bottega del caffè rivela una capacità
di scrittura al di là dell'aneddoto, al di là della battuta, anche al di là
del partito preso polemico della prima regia che Fassbinder ha fatto di
questo suo lavoro. Il testo è una sintesi accuratissima e al tempo stesso
un disvelamento di una certa ipocrisia del teatro di Goldoni. Non è
ipocrita il teatro di Goldoni, intendiamoci, ma alcuni suoi personaggi in
un certo senso lo sono. Fassbinder, come autore, ha portato fino
all'estremo l'incrudelimento dei personaggi goldoniani.
Rarefacendo le atmosfere, riducendo il campiello a un luogo che noi ci
siamo ben trovati a rappresentare con questa Venezia sporca, impestata,
inquinata, con l'acqua alta e gli scarichi industriali, rabberciata,
marginale, una Venezia quasi Marghera.
E alla fine dei conti Fassbinder è riuscito a dimostrare che si può
prendere il cuore vivo di un testo del 1750, a suo modo rivoluzionario, e
metterlo nel cuore vivo di questi anni scuri senza ucciderlo. Ma facendolo
morire per farlo rinascere.
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La bottega del caffè - di Antonio Calbi |
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