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Da un lindore post-brechtiano al neoespressionismo:
La bottega del caffè
Ottobre 1991. Bruni e De Capitani, ancora una volta impegnati a dividersi
le responsabilità dell'allestimento (Bruni ne cura pure la traduzione),
mettono in scena La bottega del caffè, facendone una farsaccia notturna,
una commedia sinistra con musiche - canzonette, sbuffi di corni e tonfi di
tamburi - tutta concertata in chiave neoespressionista, lasciando emergere
in modo palese la contiguità di Fassbinder con Wedekind, affrontato con il
Risveglio di primavera l'anno prima, con i suoi adolescenti corrotti e
violenti. La Bottega risulta un circo di mostruosità, di girotondo di
relitti umani, di parassiti attenti allo spicciolo e infoiati di sesso, con
un'omosessualità serpeggiante nel cameratismo e nella complicità che lega
fra loro i personaggi. Il gioco delle specularità, del rispecchiamento e
della ricerca di Sé nell'altro, che si farà più esplicito in Petra, è qui
già presente: il rapporto servo-padrone fra Petra e Marlene, qui è palese
in quello fra Trappolo e i clienti del caffè, e in chiave sentimentale fra
il vecchio Trappolo e il giovane Eugenio. Il sadomasochismo regola un po'
tutti i rapporti: innanzitutto quello fra il servo e il padrone del caffè,
ma anche fra Lisaura e Leandro, fra Vittoria e Eugenio, fra Placida e il
marito ritrovato, incatenato per l'epilogo.
Il set è "povero", dal momento che pare realizzato con materiale di
recupero: ne risulta un affestellamento che è artificio, segno barocco,
grottesco e enfatico. Carlo Sala inventa una delle sue soluzioni più
azzeccate: sempre sensibile ai materiali, qui adotta l'acqua come elemento
scenico e fortemente espressivo in senso drammaturgico. Un fondale recita
un muro scrostato di color bruno rossiccio con finestrelle e botole di ogni
forma e misura, attraverso le quali gli interni offrono tracce della
ricchezza della Venezia di un tempo, nelle trapunte damascate, nelle pareti
d'oro ossidato, nelle luci incandescenti, con quella stretta scala centrale
che discende al bassofondo. Da questo fondale-muro s'affacciano i
personaggi come in un teatrino bidimensionale di Luzzati; ai suoi piedi si
allarga un laghetto d'acqua putrida sul quale è composto un assito incerto
di tavolacce. I personaggi capitombolano dall'alto in questo basso
infernale che non conosce cielo. Altro che campiello! La superficie di
questo stagno rimanda un doppio noir ancora più inquietante nella sua
lucentezza di questo presepe satanico di relitti, di pigri duellanti fra
pantegane accopate qua e là.
Bruni e De Capitani lo leggono come scenario apocalittico post-tutto.
Perché poi, a che serve tutto quel lottare per qualche zecchino - dollaro,
scellino, lire, pence e centesimo? Tutto è prigioniero di questo luogo che
non ha un altrove migliore; luogo di un gioco coatto e reiterato
all'infinito. Un set, questo, che bene si colloca in quella linea non solo
fassbinderiana di "rivalutazione del basso corporale e dell'umorale contro
l'asettica mortale perfezione della società tecnologica". Così come tutto
quel far di conto finisce per azzerare il valore stesso del denaro, allo
stesso modo lo sporco arriva nella scena a un'analoga superfetazione di se
stesso.
"Non è puro quello che stringo tra le braccia di notte. Esalazioni di
marciume ti aleggiano intorno. È carne putrida quella che abbraccio, è
pelle grigia e senza vita".
Leandro a Lisaura, I atto
Biacche, visi segnati, sguardi pesti; occhiaie e rughe pronunciate come in
un quadro di Ensor o di Egon Schiele, con carni cadaveriche per un teatrino
tombale di morti viventi che si agitano al tintinnar di zecchini in un
ballo grottesco. Acconciature oscene, che a volte strizzano l'occhio alle
estrosità estetico-ideologiche dei punk. Cappottoni e palandrane più Otto
che Settecento per gli uomini, che qui sono protagonisti, almeno fino al
terzo atto. Luci livide. Tamburi, tonfi, ritmi musicali tribali compongono
un basso continuo.
Ridolfo - Elio De Capitani-, sostituirà l'iniziale copricapo a retina con
un cordolo di capelli punkeggiante, e una stratificazione di panni addosso
per status sociali ormai decaduti. Un cupo Trappolo indurito dal tempo e
allo stesso tempo rimasto ingenuo - in una interpretazione che ha rivelato
le belle capacità del giovane Fabiano Fantini. Per Don Marzio, Ferdinando
Bruni mette insieme gli ingredieti di un'icona di eccezionale squallore:
una pelata con quattro ciuffi superstiti tirati fin sulla fronte, mani
giunte da abate traffichino, una gestualità irretita nei tic, il cappottone
lungo fino ai piedi ne completa il look da lurido scarabeo. La motilità
delle mani ha un suo controcanto nel viso fissato in un ghigno sibillino.
Manca una gobbetta e l'andreottismo - di questo viscido consigliere
pettegolo usuraio speculatore e informatore della polizia - sarebbe pieno.
Un pellicciotto spelacchiato lungo fino a terra è la scorza del Pandolfo di
Luca Toracca, calotta nera in testa e bandana. Una figura emaciata e
vampiresca è Leandro - indolente con Paolo Bessegato; metodico con Gabriele
Calibdri; camiciola bianca sbracata sul petto innocente per Eugenio. La
puttana, e dunque succinta Lisaura - Claudia Pozzi e poi Corinna Agustoni -
ha un nudo di donna tatuato sul petto; mentre una mise meno corrota è
scelta per Vittoria - Ida Marinelli e poi Virginia Martini -, per finire
con Placida - Cristina Crippa -, in pompa da frigida vedova, ma amante del
sadomaso come si comprenderà alla fine. Stivaloni da pescatore, scarpe da
svuotare dall'acqua e calzini di tanto in tanto da strizzare per questi
parassiti cloacali che si trascinano in un'acqua "alta" ormai stagnante.
La recitazione è enfatizzata, maturata attraverso un lavoro attento,
evidente nella moltiplicazione dei registri e delle intonazioni dialettali,
diverse per ciascun personaggio: De Capitani pare Cecchi, per quella pigra
insofferenza napoletaneggiante; Leandro è lento e perentorio come un
Frankenstein, uno zombi redivivo e vagamente berlusconiano, rallentato
nella parola che piemonteseggia; Vittoria è di padre bergamasco e così via.
Anche qui tornano i microfoni, calati dall'alto a soccorrere i personaggi
quando devono dar sfogo ai loro monologhi o ai loro duelli verbali, come
quello fra Leandro e Eugenio sulla superiorità del maschio sulla femmina:
in questo bordello i microfoni sono falli elettronici, aggeggi fonici per
autoerotismo orale. Allora il passaggio dal grottesco tragico al musical
noir è consequenziale. E se i doppisensi si sprecano - fra castagne secche
che stan per testicoli atrofizzati di uomini ormai infertili, pistole e
pistoline sfoderate e reinfoderate, orecchini mandati a ficcarsi su per il
culo, flussi e riflussi dalle porte di dietro come sentenzia Don Marzio
riferendosi a Lisaura - ci sono pure i gemiti di un orgasmo in diretta, al
buio, fra Lisaura e il suo stallone berbero.
Nei ritmi serrati e oliati, fra le tinte fosche e i toni allegri, l'intero
cast si diverte a far Goldoni in questo modo, perché poi il nocciolo è che
attraverso Fassbinder si ritrova l'autore originario e, appropriandosene,
lo si dissacra ulteriormente e al contempo se ne rivela l'inedita portata
sulfurea, per tramite di una sorta di parodia di un horror musical,
ambientato in una Venezia putrida e nefasta, a metà, come ha rilevato
qualche critico, fra Marghera e Hong Kong.
Se si consumano i sentimenti, le psicologie al pari delle identità, il
denaro è ciò che rimane, feticcio inutile di rapporti regolati dal
desiderio e dal commercio. "I soldi sono soldi, e da dove arrivano che
importanza ha?", dirà Leandro. Il leit motif è allora il cambio che si
realizza a voce alta e in tempo reale, ogni volta che il denaro appare in
scena o nei dialoghi. Nessuno è immune da questa frenesia da borsa, tutti
sono traduttori istantanei di valute, e questa ossessione è uno degli
elementi che conferisce ritmo alla vicenda in questa bisca bordello bottega
borsa di cambio (premonitrice di Maastricht). Tutti luoghi di mercato:
strozzini, giocatori d'azzardo, doppiogiochisti, spie, tenutarie di
bordello, prostitute e clienti, tutti in preda a un automatismo economico,
prigionieri di un magnetismo ossessivo verso il calcolo della somma che non
si possiede.
Le donne della Bottega hanno ancora sentimenti, amano, ma non sono affatto
sprovvedute, prenderanno il sopravvento e condurranno il gioco alla fine,
perché gli uomini anche qui sono "scemi e puzzoni", assicurandosi affari,
sesso, danaro e protezione. Se le vere donne non possono che essere puttane
e megere, allora gli uomini finiranno cornuti, mantenuti, parassiti.
Misoginia e femminismo, come curiosità e diffidenza, amore e indifferenza
verso l'altro sesso, procedono di pari passo in Fassbinder: "Tu? Tu non sei
che una donna", dirà più tardi Querelle rispondendo a Lysiane, mentre
l'invidioso Don Marzio dirà di Eugenio: "Sarà in casa a carezzare la
moglie! Che uomo effeminato! Sempre moglie! Sempre moglie!".
Gli uomini stentano a essere veramente virili: "Voi sapete dove trovarmi,
Eugenio. Vi darò una mano a diventare un vero uomo", Leandro. "E io sono
fiero di te, che mi hai aiutato a diventare un vero uomo", dirà Eugenio a
sua moglie Vittoria. Così, il travestitismo come segno di ambiguità, se in
Petra è nella madre, interpretata da un attore, qui è in Placida che si
traveste da checca per non farsi riconoscere dal marito in fuga.
Anche nella Bottega, come per il compleanno di Petra, c'è un festino: un
filo di lucine in aria, coriandoli e un valzerino, fumi e luci come nel
Rocky Horror Picture Show quando Placida entra in scena per il finale, una
sarabanda che è un divertissement sulfereamente leggero e che dunque può
apparire più vicino a Goldoni che a Fassbinder. Ma come Fassbinder usa
Goldoni, così il Teatro dell'Elfo usa Fassbinder. E si diverte divertendo.
Nel terzo atto il buio è ancora più pesto, i visi sono illuminati da torce
in mano agli stessi personaggi, caricaturati in smorfie arcigne. Torna un
ritmo di fondo cupo: siamo dalle parti di Fritz Lang e di Murnau.
Paradossalmente, in tanto caos tutto si chiarisce, il meccanismo economico
che regola le relazioni si rinsalda. Ognuno al suo posto, ciascuno coi
propri guadagni, col proprio tornaconto. Leandro è incatenato alla moglie;
Vittoria ha cambiato pettinatura e mestiere; Trappolo, defraudato di
giovinezza e del denaro di una vita, e dunque della vita stessa, uccide Don
Marzio, mentre tutti gli altri personaggi ne sono testimoni complici dalle
loro finestrelle. Dopo il monologo di Placida sul bisogno di amore, le luci
si spengono proprio su di lui, mai amato e incapace di amare, e dunque
assassino, come spesso nelle storie raccontate da Fassbinder.
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La bottega del caffè - di Antonio Calbi |
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