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Le luci rosa e blu rivelano un pavimento a schacchi bianconeri; le piantane
per i fari ne denunciano ulteriormente il carattere di set cinematografico,
di luogo di finzione. Che poi, si è detto, è uno dei modi della verità.
Amanti di scene vuote, anche questa disegnata da De Capitani e Bruni è una
scena essenziale, povera di arredi e di oggetti, il cui vuoto amplifica
parole, gesti e azioni. Sorta di grande tavolo anatomico, serve per
scrutare le dinamiche di relazioni e sentimenti. Come in un ambiente di
detenzione, l'unico arredo superstite è il letto: dapprima bianco, si
sposterà dal fondo della scena al lato opposto della pedana, davanti al
pubblico e diventerà rosso nel secondo atto, quando la relazione con Karin
comincia a consumarsi. Un diaframma di pannelli scorrevoli isola a volte la
zona più intima della casa-atelier, quella sul fondo, dalla pedana vera e
propria che è apparato d'esposizione, passerella pubblica - e non solo
perché Petra è una stilista. Il pavimento a scacchi risucchia le azioni, le
incolla a sé come l'occhio a un quadro optical, imprigionando le figurine
magnetiche di questo teatrino morboso.
Petra si dimena fra l'ipocrisia e il vuoto, ha i lineamenti asciutti e duri
di un disegno di Grosz, scatti cannibaleschi, voraci, violenti, impulsivi,
una recitazione a volte eccessiva, effettata, in abiti lunghi e sensuali.
Isterica e dolente, disorientata e annichilita, consumata e viva, Petra
piange e invoca Dio, per finire in un rantolo straziante che la imparenta
alla protagonista della Voce umana di Cocteau, per terra su un drappo
rosso, a vomitare il fiele innamorato verso l'oggetto amato.
Marlene è un inquietante testimone della vicenda, alla quale prende parte
senza effetti immediati: vive solo di gesti e di espressioni neutre
d'automa, a volte accompagnerà come fosse una infermiera una Petra
spossata. Il legame che le lega è dialettico: Petra urla, Marlene è chiusa
nel mutismo, l'una si arrovella e divora se stessa e le altre, l'altra è
pazientee discreta; la prima ha capelli ossigenati e abiti bianchi,
colorati bruni o di fuoco, l'altra veste un castigato completo nero. Karin
è una bellona sciatta e rozza, una fanciulla qualunque e come tale entra in
scena dalla gradinata del pubblico dove all'inizio è seduta: ma sarà lei a
innescare il gioco al massacro, portando, per la sua indifferenza, Petra a
un'agonia d'amore. Lo scontro non sarà mai diretto perché non c'è relazione
paritaria fra l'amante e il suo oggetto. Sidonie - Corinna Agustoni -, ha
modi da cabaret, da sciantosa, al limite della macchietta. Anche la figlia
Gabi è un oggetto di odio e amore, così come è la madre Valerie - Luca
Toracca - che Petrà non esiterà a bollare come puttana.
La recitazione ha registri sussultanti, che sobbalzano fra il silenzio e
l'enfasi, lo strido e il mutismo, il delirio e l'afasia. Toni caricati,
ritmi disequilibrati, a volte allungati a volte incalzanti, un registro
nevrotico: tutto cerca una stilizzazione, un'astrazione nell'iperrealismo.
E ricompaiono i microfoni, diventati una cifra linguistica dell'Elfo:
recitarli al microfono trasforma i dialoghi in monologhi, conferisce loro
una qualità di confessione pubblica. La tecnologia compare anche in qualche
registrazione che anticipa le battute e nelle proiezioni di cui si diceva.
Petra scende dalla passerella come una popstar o una malinconica cantante,
giù in mezzo al pubblico. In questo limbo fra vicenda e sguardi dello
spettatore Petra si rifugia di tanto in tanto. E non è solo un artificio di
avvicinamento allo spettatore-testimone, ma un abbandono della pedana
scenica di gusto brechtiano.
Oltre alle parole, l'attenzione della regia va alle azioni e ai gesti:
curatissimi a volte fino alla stucchevolezza, fissati per qualche secondo,
sotto l'occhio sempre presente di Marlene, in composizioni quasi
manieriste. La regia dilata i tempi, enfatizza il parlato, espande lo
spazio attraverso quella scacchiera che è allo stesso tempo una
concentrazionaria gabbia percettiva - molte sono le corse lungo la
passerella che fanno da controcanto alla frenesia verbale, corse che
traducono in nevrosi fisica le parole e il fuoco interiore. Sono scelte che
vanno verso una composizione di segni chiari, illuminanti, affatto criptici
e non autoreferenziali, ispirati dal desiderio di raggiungere una
cristallizzazione da archetipo. Un'immagine per tutte: Petra che si
trascina a spalla il proprio letto in una via Crucis profana, seguita da un
drammatico cono di luce. Le luci livide, le pose curate - che paiono
partecipare del medesimo gusto per l'immagine della pubblicità o del
videoclip - sono il portato della contaminazione consapevole con un
immaginario contemporaneo che viene fatto incontrare senza timori con il
teatro, introducendone segni e atmosfere ma sempre in funzione espressiva e
sempre preservandone l'identità.
Col procedere della vicenda l'atmosfera si carica ulteriormente: la festa
di compleanno di Petra è un sinistro cabaret, con tre nicchie sul fondo
abitate da altrettante icone femminili - madre, figlia e amica -, involucri
di esseri umani privi di vita e di sentimenti, marionette di una danza
macabra al femminile. Una per volta scendono dalle loro vetrine ghiacciate
al neon il loro ingresso è da show con coni di luce e musichette: tutte e
tre vestite di nero, perché solo alla coppia di amanti è concesso il
colore. L'ingresso della madre, matrice di ogni destino, di ogni tragicità,
è spettrale: è la dama in noir di un teatrino di morte, sulle note
enfatiche e funeree di Cold song di Purcell, nella versione per
controtenore interpretata da Klaus Nomi. Nell'interpretazione
particolarmente impressionante di Luca Toracca, ha la voce distorta
elettronicamente: ed è forse questo il più fassbinderiano tocco, in senso
estetico, dello spettacolo - l'ambiguità delle relazioni, il fluttuare dei
sessi e dei ruoli, la loro interscambiabilità, amanti che sono carnefici e
viceversa, padri e madri fusi insieme in questa madre mantide nera. Sono
tutte donne sole, vedova Valerie, divorziata e disorientata Petra,
solitaria Marlene. Qui gli uomini sono superflui.
È un "trionfo della morte", un quadro espressionista, il colpo di teatro
con le tre sedute sul letto-sofà ("Siete tutte ipocrite! Piccole miserabili
troie ipocrite", dirà Petra): festeggiano un compleanno travestito da
funerale. Assistono colpevolmente impotenti allo sbandamento di un Io, in
un quadro di simmetrie: Petra a destra, a sinistra Marlene, accasciate alla
parete, al centro le parche di tre generazioni in funzione di passato
presente e futuro.
Ma il gioco circolare delle rifrazioni fra donne, fra implosioni ed
esplosioni, fra solidarietà e cannibalismo, investe l'intero spazio.
Qualche secondo dopo, ecco una pietà, fra Michelangelo e Pasolini, con la
madre luttuosa a reggere il corpo innocente della figlia. Il letto-tomba
iniziale torna ora nella vasca da bagno bianca, come in un assolo
neoespressionista della Linke o della Hoffmann. Una vasca che è bara quanto
il letto dell'inizio era ara sacrificale. Il rito volge all'epilogo, Petra
è stata/si è immolata. Consolazione e amore sono la medesima cosa,
sentenzierà la madre.
"Bisogna imparare ad amare senza pretendere nulla in cambio",
"Ho imparato, mamma, e mi ha fatto tanto male. Invece imparare non dovrebbe
essere bello, non un tormento."
Petra, atto V
L'ultimo quadro è speculare a quello dell'inizio: Marlene è ai piedi di
questa tomba di vita - la vasca può essere momento di rigenerazione o
bara, come per Marat e per tanti morti suicidi -; e se nel quadro iniziale
Marlene contempla Petra e l'addita al pubblico come in un'Annunciazione,
qui le accarezza un braccio con la guancia. Mentre alla richiesta di
relazione da parte di Petra - "D'ora in poi lavoreremo di nuovo insieme,
sul serio e avrai anche le soddisfazioni che meriti. . Devi poter essere
felice anche tu. Siediti, dimmi qualcosa di te" -, Marlene risponde
guardando ancora una volta il pubblico, fissandosi in un urlo afasico che
ci riporta a Munch. Un altro espressionista.
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Le amare lacrime di Petra von Kant - di Antonio Calbi |
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