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LOGOS E PATHOS
(L'arte di Billie Holiday)
Se mi volto a riguardare questi anni, fermandomi un momento per cercare un
senso, è proprio in questo instancabile girovagare, in questo continuo
movimento che lo trovo. Se mi domando come è potuto succedere che esistiamo
ancora, che questa unione, nata per caso in fondo, senza altri impulsi,
perlomeno all'inizio, che non fossero l'esigenza di gridare, di liberarsi
di una specie di energia animale, senza forma, senza studio, solo per
dimostrare agli altri che eravamo lì (come fanno anche i neonati dopo
tutto) sia sopravvissuta a condizioni, materiali prima - durissime - e poi
umane, private, esistenziali, pubbliche, che avrebbero dovuto ammazzarla
già da tempo, io credo di trovare la risposta in questo movimento
disperato. In questo non fermarsi a riguardare indietro, nel voler sempre
scoprire cosa c'è dietro l'angolo, e nel sapere che lì dietro ci aspetta un
altro angolo. Nell'inseguire punti di fuga lontanissimi. Nel cercare la
pentola d'oro irraggiungibile all'estremità di grandi arcobaleni. Suole di
vento ai piedi. Movimento.
Fuga. Credo sia questo il senso. E muovendosi sempre, mi sembra sia
difficile prendere coscienza del cammino percorso. Tanto, certo. A
ricordarcelo ci sono i numeri, le parole, le stagioni. E il passare degli
anni. A che punto siamo? Adesso siamo su un'altura, non in alto, non in
basso, sopra un colle. Troppo vecchi per giocare ancora, troppo giovani per
non giocare più. Occorre prendere fiato se vogliamo scalare le montagne. E
mi sembra che siamo abbastanza presuntuosi da volerlo fare. Ma scalare è
un'arte complicata, pericolosa, che richiede tecnica, muscoli, attitudine,
fatica: è appunto un'arte. Basta con le metafore, per ora. Un paio di mesi
fa è successo qualcosa: una cosa qualsiasi, a prima vista. Abbiamo
riguardato un video, già visto tante volte. Questa volta però ci è sembrato
un'altra cosa e ci ha parlato con un'altra chiarezza. Per una volta tanto
ci ha costretti a stare fermi, a riguardarci indietro. E abbiamo visto, in
mezzo al polverone sollevato dal nostro movimento, la traccia netta e
eloquente di una strada. Per una volta tanto i segni intuitivi,
appassionati con cui abbiamo costruito uno spettacolo ( "Le amare lacrime
di Petra Von Kant", uno dei nostri prediletti, certo. Uno di cui abbiamo
parlato tante volte, ma sempre come di una tappa per andare oltre) ci è
sembrato avessero la forza e l'evidenza di un linguaggio.
Il nostro cammino ha percorso un sentiero su un crinale in bilico fra
parola e personaggio, tentati, da una parte, di incarnare sulla scena
esseri umani veri, tridimensionali, attori di esperienze estreme, ma
condivisibili, reali come le nostre città, la nostra vita, dall'altra, di
dar credito alla capacità della parola in sè di farsi sulla scena materia
tridimensionale, da plasmare come terra, alla sua capacità di essere
dinamica, di farsi scena, luce, paesaggio, armatura, battaglia, di essere
insomma il mondo. Come se un percorso circolare, che avevamo iniziato
lavorando dieci anni fa su Čechov e sui rapporti fra attore-persona e
attore-personaggio, dopo aver attraversato le secche dell'afasia con
"Doppio senso", fosse approdato, grazie all'incontro con la scrittura di
Fassbinder e a quello spettacolo, a un'idea di interprete diverso, che si
fa carico di "rappresentare", non "essendo", ma che proprio "
rappresentando" "è", attraverso l'esibizione necessariamente impudica della
persona-attore cui è dato il compito di raccontare emozioni altrui, di
incarnare conflitti d'altri, di esplorare altre logiche ma che non è mai,
nè deve fingere di esserlo, altri che se stesso, colto nell'atto
imbarazzante di compiere una liberatoria, isterica e spesso dolorosa
catarsi autoerotica, ma che attraverso una tecnica il più possibile
affinata deve riuscire a trasformare il suo percorso interno in una
partitura di " segni" formalizzati ed espressivi. Qualcosa a mezza strada
fra l'arte della torch-songs-singer e il mestiere della spogliarellista
d'alto rango. Facendo uno sforzo di sintesi altri hanno detto : "post-
brechtiani",dove con "brechtiani" ci si riferisce, credo, all'uso di
strumenti stranianti come microfoni, maschere, trucchi, lavoro sulla voce
in direzione musicale, suono e volumi anti-teatrali, musiche dal vivo e
non, contaminazioni di materiali alti, bassi, di recupero, di scarto e per
alcuni semplicemente ripugnanti e soprattutto lontananza "critica" dal
personaggio. E con "post" si allude probabilmente a quel surplus di
comunicazione sensuale, di ritualità circense, di rischio cercato di
melodramma, di rapporto emozionale con il pubblico che è anche l'opposto di
quel che normalmente si intende con "brechtiano" . Io forse più che a
Brecht, certamente presente in molte occasioni ("Alla greca", per esempio),
penserei con più pertinenza al blues di Billie Holiday.
"....I frammenti dispersi della mia memoria hanno composto tutt'a un
tratto una collana di gemme del colore del sangue, di rubini.
Ed è un tesoro questo che custodisco come una reliquia..."
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È curioso che proprio una storia apparentemente borghese (Una delle
pochissime messe in scena da noi che si svolga fra un salotto e le lenzuola
sfatte di una camera da letto) ci abbia portato a questi esiti.
Ma, all'inizio di tutto, c'è stata appunto quella scrittura. Quel tono da
parabola, quelle cadenze da sacra rappresentazione mascherata da
fotoromanzo. " Le lacrime amare." " Venite, sorelle, a vedere le mie
lacrime." Sono le parole con cui si apre il corale della Passione secondo
Matteo, cara a Pasolini. E da questa musica, e ricordando la novità
giottesca del cinema di Pasolini, il suo essere primitivo e modernissimo,
il suo raccontare attraverso un "montaggio per affreschi", soprattutto il
suo attingere a quel patrimonio inesauribile e sontuoso che è la storia
della nostra arte, abbiamo mosso i primi passi per costruire uno spettacolo
scandito ritualmente come una "Passione".
I personaggi di Fassbinder non parlano come parla la gente comune, la loro
è una lingua essenziale, primitiva, decantata da ogni gag iperrealista,
parlano come fossero vecchi di mille anni, come se il lento lavorio delle
lacrime avesse tolto dalle loro parole ogni coloritura quotidiana. Sembrano
esprimersi per stereotipi, colgono invece con precisione chirurgica
l'archetipo che ogni stereotipo nasconde. Petra alla fine della sua vicenda
dice: "Bisogna imparare ad amare senza chiedere niente in cambio." E lo
dice così, senza metafore, senza abbellimenti, come un comandamento. I
personaggi di Fassbinder hanno in comune con quelli di Sofocle e di
Pasolini questa lingua, che sembra nascere mentre viene detta. Nella prima
fase del lavoro avevamo dunque solo questi due elementi su cui fare
affidamento: una lingua originale, preziosa e umile che ci richiedeva
qualcosa di diverso dall'immedesimazione e nelle orecchie l'eco di una
cadenza musicale. Per "prima fase" intendo quella che precede di gran lunga
le prove e ogni lavoro pratico e che segue il primo incontro con un testo
in cui si sente battere come un cuore pulsante, ma segreto, una necessità,
un suo riguardarci, in qualche oscuro modo, da vicino.
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Note di regia - Le amare lacrime di Petra von Kant |
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