Quando l'amore è più freddo della morte: Le amare lacrime di Petra von Kant "Io vorrei morire, mamma. Vorrei tanto morire! Ottobre 1988, all'Elfo va in scena Le amare lacrime di Petra von Kant, uno spettacolo di Ferdinando Bruni e Elio De Capitani. È un dramma sull'amore, sul dolore, sulla disintegrazione dell'Io, sul sadomasochismo, sulla famiglia, sul rapporto servo-padrone. Una pièce dai toni da parabola, una sacra rappresentazione mascherata da fotoromanzo - così la leggono i due registi - in cui si osserva l'innamoramento e il succesivo annientamento di Petra: "l'innamoramento - annotano a proposito De Capitani e Bruni - è una caduta di difese immunitarie che attacca e trasfigura chi gli pare". E "se si ha l'amore in corpo, non serve giocare a flipper", scriverà Fassbinder. Nella pièce l'autore osserva l'esplosione, "nella mente di Petra, di una passione incontrollata, autodistruttiva. Autodistruttiva perché non sa o non può rapportarsi all'oggetto amoroso. Quello che è sicuramente uno dei capolavori di Fassbinder apre anche il ciclo dei suoi grandi melodrammi". (1) Petra è un rituale erotico e una via del dolore, dunque un rituale sul piacere del dolore, condotto - da Fassbinder nella scrittura e dal Teatro dell'Elfo nell'allestimento - con immedesimazione viscerale e distanziamento straniante, in un arduo equilibrio. Che è la sfida che il gruppo si pone da questo momento in avanti. La miscela è la più esplosiva di sempre, la più amata da Fassbinder, quella di Eros e Thanatos: "L'amore per l'altro è sempre amore per se stessi, proiezione sull'altro dei nostri desideri e dei nostri fantasmi, quindi 'necessariamente' amore omosessuale. Solo la morte ci può liberare da questa ossessione del doppio: uccidere l'oggetto d'amore è, quindi, come infrangere lo specchio. Tentare di uscire dal narcisismo". (2) Ma Petra non è ancora Querelle. Petra è un animale impaurito: "essere lasciati non ti fa piombare nella solitudine come quando si è presi dall'angoscia che sta finendo"(3). Dicotomie inscindibili: amore e odio, dolore e piacere, ignoranza e intelligenza, madre e puttana, carnefice e vittima, originali e copie, figure e ombre, libertà e catene. Romantico e anarchico, rivoluzionario e dissacrante, Fassbinder racconta una vicenda tutta al femminile, condotta con delicatezza melodrammatica mista a uno sguardo lucido e freddo. Racconta di donne emancipate, che detestano la "puzza" del maschio, di relazioni fallite con l'altro sesso e della ricerca di se stesse che passa attraverso il doppio dell'altro e che può sfumare nel desiderio omosessuale. Fassbinder comincia qui ad abbandonarsi al romanticismo e al melodramma facendo dire alla sua protagonista che "qualcuno ha detto una volta che le cose belle sono sempre quelle che finiscono prima", che "l'essere umano è una bestia. Alla fine manda giù tutto. L'essere umano è duro e brutale e uno vale l'altro. Nessuno che sia insostituibile. Bisogna impararlo.", che l'amore non è altro che sottomissione, un sentimento regolato da dinamiche di potere, che per imparare c'è bisogno di disciplina, che il dolore fa bene alla salute, che tutti siamo un po' folli e che "è pazzamente bello essere pazzi". Fassbinder si sprofonda nel genere prescelto, che è tutt'uno con la materia, senza temere di cadere nella banalità del luogo comune, anzi facendo della sua Petra, ricca, intelligente, sicura di sé, un'icona senza status, dolente come un essere umano qualunque. Ma "i personaggi di Fassbinder -annotano i due registi- non parlano come la gente comune, la loro è una lingua essenziale, primitiva, decantata da ogni gag iperrealista, parlano come fossero vecchi di mille anni". Dicono pensieri che sono verità semplici e assolute, e li pronunciano "senza metafore, senza abbellimenti, come fossero comandamenti. I personaggi di Fassbinder hanno in comune con quelli di Sofocle e di Pasolini questa lingua, che sembra nascere mentre viene detta".Esaltata dal suo nuovo sentimento per Karin, dopo due matrimoni finiti male, Petra è risucchiata in quel limbo dove non sono ancora scissi verità e finzione, sincerità e ipocrisia: privata del suo oggetto del desiderio si abbandonerà all'alcol e alle lacrime, si lascerà annientare dalla nevrosi. Il momento è drammatico perché Petra percepisce il cancro dei suoi pensieri. Bere, piangere, fingere. "Recitare, che altro si può fare?" per dirla ancora con Müller. "Sognare un amore vero è proprio un bel sogno" (4) Il "rituale" delle Amare lacrime di Petra von Kant è introdotto da brani fotografici di corpi, un occhio, un labbro, pelle e capelli, feticci della seduzione, rubati dal cannibalismo di un occhio fotografico e che introducono il tema del voyeurismo, dell'indagine analitica, della presentazione di un "caso" e della sua testimonianza. Lo spazio è dilatato in una grande pedana a forma di "T" che si incunea fra le tre gradinate per il pubblico. La Passione secondo Matteo di Bach, oltre a ricordare Pasolini, è una sottolineatura barocca, sacra e solenne, del calvario di cui lo spettatore sarà testimone. La prima scena ha la medesima eloquenza di una rappresentazione pittorica: Marlene-Cristina Crippa -, servo di scena e interfaccia fra lo sguardo dello spettatore e il soggetto del pittore, dà luce alla scena scoprendo uno spot; si avvicina a Petra - Ida Marinelli -, che giace supina, un braccio abbandonato, gli occhi coperti da una maschera nera, su un giaciglio tombale incorniciato da un drappeggio bianco altissimo a comporre un apparato di esposizione di gusto neoclassico. Marlene si avvicina a quel candore che pare senza vita, come se il sonno annunciasse un trapasso ancor più definitvo: in pochi secondi, dapprima contempla il suo "oggetto" poi lo addita al pubblico, mentre Petra le chiederà di non esser così insensibile. Una delle modalità dell'artificio è la circolarità: questo stesso fotogramma tornerà alla fine. Adagiata in un altro sepolcro, una vasca da bagno, Petra chiederà in modo ancora più esplicito a Marlene di aprirsi a una relazione. 1. Roberto Menin. "La vita è una prigione all'aperto", introduzione a Rainer Werner Fassbinder, I Rifiuti, la città e la morte e altri testi, Ubulibri, Milano 1992, p. 15. 2. Giorgio Manacorda, La tragedia del ridicolo. Teatro e teatralità nel Novecento tedesco, Ubulibri, Milano 1996, p. 102. 3. R.W. Fassbinder (1971) 4. R.W. Fassbinder (1971)
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