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Il teatro come sogno cosciente
La bella utopia: il Teatro dell'Elfo
di Antonio Calbi
La storia del Teatro dell'Elfo, i suoi quasi trent'anni di vita, è fra le
più emblematiche dei teatri nati nel post-Sessantotto: creato da un gruppo
di amici, dall'incontro di giovani che hanno scelto il teatro come vita,
pratica ideologica ed estetica insieme, è un teatro che ha attraversato i
tre decenni che abbiamo alle spalle, così diseguali nelle loro altrettanto
diverse inquietudini, conservando sempre una necessità, personale e
pubblica, nella prassi teatrale, e la forza di coesione del collettivo.
All'inizio c'è il gusto quasi leggero nel condurre il gioco serio del
teatro, vissuto sempre dentro le dinamiche e gli impulsi del sociale,
all'interno dei movimenti giovanili di allora. Dunque il rigore assieme
allo spasso, la Rivoluzione francese e Pinocchio, la contaminazione con i
linguaggi della contemporaneità per reimmettere il teatro nei flussi della
comunicazione, dell'arte e della cultura. Una levità dell'intelligenza che
poteva essere presa per giovanilismo, e forse in parte è stato così per
quel briciolo di incoscienza, quel piglio forse un po' troppo sicuro
nell'affrontare certi temi, per quell'ingenuità nel gustare l'utopia. Col
tempo quella sfumatura di inconsapevolezza - o si trattava di coraggio? - è
diventata determinazione, rigore, coerenza.
È probabile che il Teatro dell'Elfo resti oggi l'unico gruppo, l'unico
collettivo teatrale nato in quegli anni, che sia riuscito a resistere al
tempo, alla corrosione dei legami - pure famigliari - e all'esaurimento
degli impulsi creativi. L'unico teatro dove si sia riusciti anche a
preservare l'utopia, praticata, di lavorare quanto più possibile a più
mani: "il presupposto di far teatro - dirà Fassbinder - è la voglia di
lavorare in gruppo, è l'esigenza di voler dar vita a progetti comuni". Se
non fosse per il distacco di Gabriele Salvatores, che pure è stato
risucchiato dal magnetismo di un altro medium - e il cinema è stato
sperimentato per la prima volta proprio con il Sogno, uno dei loro cult -,
il nucleo del gruppo è rimasto quello originario del 1972.
Ecco dunque, una scelta di testi e di autori che sorprende per la coerenza
ai limiti dell'ortodossia nel disegnare un percorso di rara forza nel
nostro panorama, come se un testo tirasse l'altro, come se un autore ne
richiamasse un altro, e non solo per analogie ma per complementarità o per
contrasto.
Una costante attenzione alla drammaturgia contemporanea, quella più dura,
più radicale; un lavoro sui testi, svolto senza incertezze, per ricondurli
alle proprie esigenze e a quelle del contesto, della città, del periodo,
del pubblico - considerato sempre interlocutore imprescindibile.
È risultato vincente, dunque, l'intreccio di determinazione e necessità
per quello che si andava a fare, il mix di progetto e azione, di carne e
pensiero, di filosofia e ghigno. Non è un caso allora che il riferimento
primo sia stato sempre la Germania, il cuore delle "rovine d'Europa", il
limbo delle tragedie di ieri e della ricerca di un possibile futuro, con lo
sguardo alla Schaubühne di Peter Stein, agli intellettuali e agli artisti
di quella nazione. Molti saranno gli autori di lingua tedesca, amati e
portati in scena: George Büchner, Frank Wedekind, Botho Strauss, Rainer
Werner Fassbinder, Heiner Müller. Autori grandissimi e testimoni
lucidissimi dei nostri tempi, saranno accompagnati ad altri poeti
maledetti: Rimbaud, Mishima, Camus, Copi, Koltes, Ginsberg, Berkoff,
Pasolini.
Rari i classici. Shakespeare, affrontato dapprima col Sogno, che ritornerà
qua e là nelle stagioni in diverse edizioni, per poi bissarlo in un
accanimento ossessivo su Amleto.
Spesso si tratta di cicli per autori, di allestimenti "aperti", quasi work
in progress, che ritornano a più riprese, come nodi psicoanalitici senza
catarsi, in una prassi che è diventata negli anni quasi una regola e che si
compone di lavoro visibile in tappe e di officine segrete condotte, su
testi o temi, per anni prima di venir alla luce in studi successivi e in
riedizioni di spettacoli che paiono non volersi fissare in versioni
definitive.
Oggi, con I rifiuti, la città e la morte si completa un primo percorso con
Fassbinder, inaugurato dieci anni fa, nell'autunno del 1988, con Le amare
lacrime di Petra von Kant passato per la riscrittura della Bottega del
caffè di Goldoni allestita nell'autunno di tre anni dopo. E se in Petra
ritroviamo temi già affrontati qua e là, nei Rifiuti si ricompongono tutti
in uno fra i testi più complessi e dibattuti del teatro contemporaneo.
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La bella utopia: Il Teatro dell'Elfo - di Antonio Calbi |
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