In scena tre testi di Agota Kristof, esempi diversi della produzione di un’autrice che sfugge a qualsiasi etichetta e parentela. Il primo è un racconto, intitolato L’analfabeta (2004), che ci fornisce, con stile estremamente asciutto, senza un’ombra di compatimento, gli elementi essenziali della sua biografia e soprattutto del suo rapporto con la lingua e la scrittura. Il secondo un testo teatrale, L’ora grigia, che ci porta altrove, di fronte a un Lui e una Lei, una prostituta avanti negli anni e un suo vecchio cliente, un ladro; i due s’incontrano in quella strana ora che precede l’alba, l’ora dei sogni, dei vagabondi e dei moribondi, per bere e parlare, in un gioco di ricordi, litigi, menzogne veritiere e false verità, mentre nella stanza accanto, un violinista aspirante suicida dà forma con la sua musica a un curioso contrappunto. Un testo segnato da un suo particolare, malinconico fascino.
Questi i contenuti di un progetto che si è andato sviluppando a partire da una lettura scenica alla Biblioteca comunale di Monza nel 2005 e che, nell’allestimento definitivo, si accrescerà di un terzo tassello, il testo teatrale La chiave dell’ascensore.
«Anche qui la verità si gioca nello spazio apparentemente ristretto che divide l’io e il tu di una coppia, sottolinea Elisabetta Rasy nell’introduzione ai due testi. Anche la scena si mostra per quel che è, non solo un territorio separato, come la camera della prostituta, ma addirittura inaccessibile a chi non ha una certa chiave, uno speciale strumento, cioè uno speciale potere. Gran parte di ciò che accade e soprattutto di ciò che conta, in queste due pièces accade fuori, altrove: la scena di Agotha Kristof è un luogo di reclusione, uno spazio concentrazionario. Dove agiscono, mascherati da piccole situazioni intimiste, ampi cerimoniai di tortura e messa a morte. Alle vittime non c’è che una chance, nel claustrofobico spazio che sono condannate ad abitare: far sapere che c’è un’altra versione dei fatti. Non c’è coraggio, virtù, grandezza nel conflitto che oppone la prostituta al suo cliente o la moglie al marito, e la mano del cielo che s’incarna nel violista fallito o nel compiacente medico di regime – del regime coniugale che vige nella stanza rotonda alla quale si può accedere solo con l’ascensore – sta nell’abietto gioco delle circostanze. Ciò che salva la scena delle relazioni in atto dal perdersi definitivamente in una musica funebre è, appunto, un unico possibile gesto di coraggio che coincide con un gesto di disperata resistenza: la testimonianza di un’altra verità, la verità della vittima».
Cristina Crippa ed Elio De Capitani saranno gli interpreti delle due coppie, Elena Russo Arman sarà una narratrice-autrice e ci guiderà attraverso i tre testi, Jean-Christophe Potvin interpreterà la figura muta del musicista e la violinista Stefania Yermoshenko ci accompagnerà con la musica dal vivo.
Nel 1956 Agota Kristof, poco più che ventenne, con in braccio una bambina di quattro mesi, varca attraverso i boschi il confine tra l’Ungheria e l’Austria. Accolta come profuga, da Vienna, giunge a Zurigo e infine a Neuchatel, dove attualmente vive. Si lascia alle spalle un’infanzia felice anche se aspra e povera, una vita dura ma segnata da un’immensa passione per la lettura e la scrittura. Si lascia alle spalle una lingua, un’identità sofferta ma forte. Ricomincia in Svizzera, lavora in una fabbrica di orologi, in condizioni materiali accettabili, ma nel deserto intellettuale e relazionale, in un asettico e crudele sradicamento. Poco per volta, conquista una nuova lingua: capire, parlare, leggere, scrivere. Inizia componendo liriche, ma passa ben presto alla prosa e, in particolare, dal 1972, a testi per il teatro e per la radio. Il successo internazionale arriva con il primo romanzo, Le grand Cahier (1986), prima parte della Trilogia della città di K. La lingua in cui Kristof scrive, il francese, non è dunque la sua lingua materna, ma una di quelle “lingue nemiche”, come il russo e il tedesco, che hanno fatto irruzione con violenza nella sua esistenza. C’è stata una ferita, una perdita e proprio questo, forse, determina nel suo stile una particolare precisione, nitidezza, passione e, nel contempo, una distanza dolorosa.
Allo stesso modo che nei romanzi più noti, anche nella produzione drammaturgica – che conta circa una dozzina di pièce, di cui solo queste due pubblicate in italiano da Einaudi – ritroviamo lo stesso bisogno di raccontarsi, di ristabilire una propria versione dei fatti, di riappropriarsi della propria verità e della vita come estrema difesa dalla disarmonia e dall’abbandono. Nel percorso della Kristof, il testo teatrale e la sua messa in scena vengono così a rappresentare l’uscita dal deserto, il ritrovamento di una collettività di ascoltatori a cui si può nuovamente parlare e appartenere. «Una lingua è perduta e al suo posto c’è una scena», sintetizza con efficacia Elisabetta Rasy.