Cominciamo dalla fine, da quel buio assoluto che è l'inizio di un nuovo sentire, libero da ogni distrazione visiva. O, forse, è semplicemente follia, la follia di vivere. Un giusto finale, con tanto di catastrofe sonora, per cento minuti di parole, ossessive e spiazzanti, spesso geniali.
L'ignorante e il folle di Thomas Bernhard (1931-1989) è un testo assolutamente affascinante, claustrofobico e perfetto nella sua circolarità. Un testo che, come il suo autore, non strizza l'occhio allo spettatore, anzi spesso lo insulta e lo dileggia, ma che punta dritto, come una lama, al cervello. Ed è con gli occhi della mente che lo si apprezza.
Un plauso, quindi, a Teatridithalia per aver avuto l'oculatezza (e il coraggio) di proporre, in prima nazionale, questa nuova e splendida versione al pubblico milanese. E un plauso, doppio, ai suoi interpreti: da Ida Marinelli, glaciale e fragile "regina della notte", a Luca Toracca, "ignorante" quanto basta, nel ruolo del padre della cantante e a Corinna Augustoni, nella doppia veste di costumista e cameriera. Ma, soprattutto, un plauso (triplo? ma forse qualcosa di più...) a Ferdinando Bruni, straodinario mattatore della parola, che sul filo della "follia", incanta e seduce nel ruolo del dottore che, al debutto della pièce, al Festival di Salisburgo del 1972, fu nientemeno che di un certo Bruno Ganz. E di attori di tale calibro c'è bisogno per testi di questo spessore nei quali poco o nulla accade (o forse accade tutto, ma "vedendolo" con gli occhi della mente), e solo una grande prova interpretativa può far risaltare nella loro grandezza.
Due atti, nel primo siamo nel camerino di un teatro. Il rosso delle tende e dei fiori è incombente e soffocante, falso e opprimente. Sta per andare in scena il Flauto Magico di Mozart. In sottofondo già si sente l'Ouverture ma la cantante, la "regina della notte", ancora non è arrivata. Il padre, semicieco e semialcolizzato, soffre per questo angosciante ritardo che si rinnova e si prolunga ad ogni replica. Con lui c'è il dottore che alterna una minuziosa descrizione di un'autopsia a disquisizioni sul senso dell'arte e del genio. Arriva la cantante con il suo carico di dubbi e di ossessioni, con i suoi gesti meccanici ma carichi di panico.
Nel secondo atto siamo in un celebre ristorante viennese, l'opera si è conclusa con il "solito" trionfo della "regina della coloritura", ma non è festa. Anzi. Prosegue la dissezione minuziosa del cadavere, così come quella, in "punta di forchetta", della vita stessa. E si apre lo spiraglio liberatorio del "mandare a monte una rappresentazione...battere le mani...tirare fuori la lingua e poi uscire di scena con una risata". E in sala cala il buio (occhi della mente o follia?) su parole che non lasciano il posto al silenzio, estremo tentativo di "distrarci" dal nostro esistere.