Un testo fondamentale del novecento, che dopo più di cento anni riesce ancora a parlarci in modo forte e vibrante, coinvolgendo esistenze e sentimenti in un problema che è anche politico e civile. Il giardino dei ciliegi è stato scritto da Anton Čechov ai primi del novecento, ultimo suo testo teatrale prima della morte. Andò in scena al Teatro d’arte di Mosca nel 1904, alla vigilia immediata dei moti rivoluzionari di Odessa, causando anzi grandi discussioni e divisioni tra l’autore e Konstantin Stanislavskji, il maestro russo di attori e regia, che pure aveva portato alla ribalta le altre opere dello scrittore.
Lo spettacolo che un paio di anni fa ne ha fatto Teatridithalia (al Quirino fino al 4 maggio), ha come interprete e responsabile primo Ferdinando Bruni (che firma regia, scene e costumi), ma vede in scena tutti i “soci” storici dell’Elfo, da Elio De Capitani che è Gaiev, lo svagato fratello della protagonista Ljubov, Ida Marinelli, e non mancano attorno a loro Corinna Agustoni, Cristina Crippa e Luca Toracca (e poi Fabiano Fantini a Elena Russo Arman del gruppo milanese).
Insomma si potrebbe definire quasi una “lettura di famiglia” del capolavoro Čechoviano, dentro quel salone chiuso di una casa in decadenza, destinata a implodere e venire distrutta come il Giardino del titolo, per fare posto a lottizzazioni di villette a schiera, per le nuovi classe urbane emergenti.
La scelta di chiudere la vicenda in quell’interno claustrofobico e delabrè, non è secondaria se si pensa ai segni scenici che legano alla memoria le più importanti edizioni dei Ciliegi: la teoria di alberi “veri” di Visconti; la vela di Strehler che dal fondo arrivava sul palcoscenico; l’accumulo di tappeti di Peter Brook. Qui anche l’aspetto ambientalista, come pure quello esistenziale, è tato fino in fondo interiorizzato. Tutto sembra essere già alle spalle, come lottizzazioni e scempi ambientali ed ecomostri di cui sono piene le nostre cronache. E davanti al disastro ineluttabile, i personaggi di Čechov (belli, ricchi di anima e di sentimenti) sembrano già soli con se stessi , senza più una direzione cui rivolgersi: il segnale del treno che apre e chiude lo spettacolo va verso mete scontate ed improbabili, certo non porta verso la felicità. Quei personaggi danno quindi fondo alla loro residua umanità: battute e ricordi, illusioni e beffe, numeri da circo come quelli della governante Charlotte (scene madri presto dismesse), della divina Ljubov, incosciente e scialacquona.
Chi acquista echi inconsueti (grazie anche all’interpretazione di Bruni) è il parvenu Lopachin, di solito un insopportabile volgarone arricchito, che grazie all’amministrazione poco limpida della tenuta, si può permettere di riacquistarla all’asta del giudizio. Qui la coscienza amara di essersi inutilmente preparato a dar vita alla nuova classe dirigente: quella che dovrebbe prendere in mano la situazione, tanto da essere aggiornato e colto in economia, dei nuovi bisogni e di prossime organizzazioni sociali. Quella classe che forse lo stesso Čechov agognava, per rendere più moderno il pianeta Russia che gli zar tenevano sprofondato nel passato. E che trovava i più fieri nemici proprio in tipi come il vecchissimo servo Firs, ancora scioccato dalla abolizione della schiavitù della gleba, e che rimarrà alla fine solo e chiuso nella casa da distruggere, mentre cominciano a venire abbattuti i ciliegi. Come certi ingenui che si attardano a osservare i passaggi da un ordinamento ad un altro, mentre il nuovo assume il volto del passato nel mangiarsi il presente.