10 giugno 2007 Il Manifesto
Bruni e De Capitani firmano l’adattamento italiano del dramma di Tony Kushner
«ANGELS IN AMERICA», TORMENTO E APOCALISSE
di Gianni Manzella, Modena

Una Divina Commedia per un’età laica e tormentata. La felice definizione di un giornalista inglese ha fatto presa su «Angels in America», tanto da trasformarsi in una sorta di non più dubitabile epigrafe esplicativa. Ma è davvero questo, l’importante dramma di Tony Kushner? Certo sono forti le suggestioni di le suggestioni di un inferno contemporaneo da attraversare, in questa «fantasia gay su temi nazionali», come l’autore aveva voluto sottotitolare il suo lavoro, con maggiore aderenza a contenuti e scelte espressive. Dove il termine «nazionale» indica con nettezza i suoi confini politici. Un’opera nata su commissione, sul finire degli anni ’80, per raccontare l’irrompere dell’Aids nell’ambiente gay nordamericano, quando ancora la malattia poteva essere vissuta con l’angoscia di una maledizione.

Cresciuta a misura di un monumentale affresco di un’epoca, sette ore di spettacolo in due parti, un sessantina di scene per più di trenta personaggi. Sbarcata trionfalmente a Brodway e poi in Europa. Tradotta anche in una fortunata serie televisiva con la regia prestigiosissima di Mike Nichols e un cast stellare.

A voler trovare un riferimento letterario, si dovrebbe con più ragione parlare di Apocalisse. Per l’intreccio di visioni, immagini simboli prodotto dalla rivelazione della malattia. Così appare Angels in America, ora che arriva a teatro anche in Italia per merito di Ferdinando Bruni e Elio de Capitani: fin qui i tre atti della prima parte, Si avvicina il millennio, la seconda è prevista per l’autunno del 2008. I due artefici ne danno una letteura asciutta, quasi disseccata, per quanto assolutamente aderente al testo di Kushner. Lontana da tentazioni sentimentali quanto da sospetti di provocazione o di scandalo. Una scelta visibile già a cominciare da una scena che si identifica con i muri nudi del teatro delle Passioni. Pochi arredi introdotti a vista servono a delineare gli ambienti delle diverse scene, spesso accostati in una sorta di montaggio incrociato. Il tavolo di un ufficio, un letto domestico e quello d’ospedale, un frigorifero che si illumina per fare uscire una figura dell’incubo. Giacché non si perde ovviamente quell’apparato visionario di angeli e apparizioni in cui si specchia la cruda realtà dei personaggi.

L’Aids non è il tema di Angels in America, se mai è il motore dei suoi temi nazionali, che sono poi il tema della colpa, il tema dell’identità che attraversano razze e religioni, ebrei e mormoni, omosessuali e no. Dove si incontrano anche personaggi storici come Ethel Rosemberg, la simpatizzante comunista uccisa sulla sedia elettrica dalla giustizia americana. O l’avvocato Roy Cohn, un tempo segretario del senatore McCarthy, mandante di quel crimine, cui lo stesso De Capitani dona una grinta feroce da caimano. Ed è lui infatti, che rifiuta la diagnosi del medico, giacché «l’Aids ce l’hanno gli omosessuali, io ho un cancro al fegato», lui che non cessa comunque di intrigare, la figura di cerniera fra le due coppie dilaniate attorno a cui si sviluppa una vicenda a più piani (sono Cristian Maria Giammarini e Elena Russo Arman, Edoardo Ribatto e Umberto Petranca che con Ida Marinelli, Cristina Crippa e Fabrizio Mattini si dividono anche gli altri ruoli). Angels in America è un Apocalisse derisoria, senza facili consolazioni. In un’epoca che ci sembra più confusa che tormentata, non è male che qualche angelo continui a scendere rumorosamente quaggiù, anche se fa molto Steven Spielberg.