Sala Auditorium del Teatro Bellini, Napoli, dal 19/01/06 al 29/01/06
Teatro Sociale, Bellinzona (CH), dal 31/01/06 al 31/01/06

LOLA CHE DILATI LA CAMICIA


dall'autobiografia di Adalgisa Conti
a cura di Luciano Della Mea
drammaturgia di Marco Baliani, Cristina Crippa e Alessandra Ghiglione

regia di Marco Baliani
scene e costumi di Carlo Sala

con Cristina Crippa e Patricia Savastano
luci di Nando Frigerio
suono di Renato Rinaldi

produzione TEATRIDITHALIA



“Gentilissimo sig. Dottore, questa è la mia vita”. Con queste parole, che testimoniano da subito un’intenzione sincera e penetrante, Adalgisa Conti, internata in manicomio a ventisei anni nel 1914, indirizza una lettera al proprio medico nella speranza che riconsideri il provvedimento di ricovero.
Con esplicito candore e concretezza d’immagini Adalgisa rivela richieste d’amore deluse, una sessualità insoddisfatta, troppi desideri avviliti. C’è il riaffiorare prepotente dell’infanzia, dei brevi giochi, dei brevi sogni di una bambina e di una ragazza che scopre il proprio corpo, bello vivo sensibile. C’è il capriccio, c’è la malinconia. Ma poco dopo c’è l’infrangersi dei sogni in un matrimonio senza gioia, l’impossibilità di comunicare con il marito Probo, che presto la colpevolizza, imponendole di soffocare desideri e pulsioni, fino a giudicarla pazza e volersene liberare affidandola al manicomio.
Non ricevendo risposte né spiegazioni, dopo questa lettera Adalgisa tace; diventa, realmente, una paziente del reparto agitate, ‘sudicia, erotica, impulsiva’, e, per quasi settant’anni, ‘invariata’. Abbandonata a se stessa, senza più una famiglia, è destinata a rimanere in manicomio fino alla fine dei suoi giorni, ormai novantenne.

Questa storia era tornata alla luce grazie a Luciano Della Mea che nel 1978 aveva pubblicato, con il titolo di Manicomio 1914, la lettera scritta all’inizio del ricovero e le testimonianze di medici e infermieri. E proprio quella lettera, così diretta e incisiva, aveva appassionato Cristina Crippa che, a distanza di anni, nel 1996, l’ha proposta a Marco Baliani e Alessandra Ghiglione, coinvolgendoli come co-autori di uno spettacolo che dà nuovamente voce ad Adalgisa in una sorta di intenso rito della memoria.
Il percorso anomalo di questa testimonianza, che sembrava persa negli archivi degli ospedali ma è invece arrivata a riacquistare voce su di un palcoscenico, è descritto in un libro appena pubblicato da Jaca Book nella collana “I senza storia”. Il volume intitolato appunto Gentilissimo sig. Dottore, questa è la mia vita ripropone i testi raccolti da Della Mea, tre interventi degli autori dello spettacolo, accanto al copione che ne è stato tratto e alle foto di scena più significative.
Nello spettacolo firmato da Marco Baliani, Lola che dilati la camicia, gli spettatori sono chiamati a condividere l’intensità di questa storia tragica e al tempo stesso piena di vita. Un percorso attraverso i sotterranei del teatro, lungo corridoi e cunicoli che fanno smarrire il senso dello spazio e del tempo, li conduce di fronte alle due donne, Adalgisa e la sua infermiera.
Cristina Crippa è una protagonista intensa e commovente che ripercorre tra afasie e illuminazioni improvvise, parole smarrite e ritrovate, il labirinto della memoria di Adalgisa, destinato a sfociare in una disperata follia. Il regista ha reinventato un linguaggio fatto di gesti minimi, piccoli cenni, belbettii sommessi che esprimono tutta la vitalità della donna troppo a lungo repressa. Patricia Savastano è la sua infermiera-guardiana, ma anche la sua sorella e custode, quasi ossessivo doppio delle visioni dell’altra.
Le due attrici esplorano insieme il filo tenue che le unisce, la continua interdipendenza e reciprocità che le rende in definitiva una coppia.

DALLA RASSEGNA STAMPA:

Rudemente lavata in un catino, rivestita da un ruvido camicione, alla fine anche grottescamente impiastricciata con un orribile trucco da vecchia, Cristina Crippa è intensa e penetrante nell’evocare gli insondabili umori della protagonista, mentre Patricia Savastano incarna una figura che è insieme di infermiera, suggeritrice, alter ego.
Renato Palazzi, Il Sole 24 Ore

E’ uno spettacolo bello e persuasivo perché senza artifici, capace di far vivere con levità e discrezione i sentimenti. Baliani muove la rappresentazione in un continuo e sottile gioco di distanze e di coinvolgimenti, di gesti minimi e di parole perdute e ritrovate e ripetute. Basta una voce che esca da un vecchio e gracchiante fonografo, basta il rumore di una goccia che ossessivamente cade per costruire un’atmosfera. Ciò che nasce è uno spettacolo pieno di dolore e poesia.
Domenico Rigotti, L’Avvenire

Toccanti la scena dell’abluzione nella tinozza e il duetto con la “nutrice” a imboccare le parole alla donna perduta. Così, tra un bagno purificatore e la trasformazione finale in grottesca maschera della follia, la vita si smarrisce fissandosi in un urlo senza respiro alla Munch e la proiezione del reperto della scrittura. Un successo.
Antonio Calbi, la Repubblica