Si, ci è stranamente vicino soprattutto il teatro di Čechov: zio Vanja, le tre sorelle Prozorov, Ljubov Andreevna Renevskaja e il fratello Gaev, protagonisti del Giardino dei Ciliegi, con quelle loro esistenze inquiete, tormentate e oppresse dalla quotidiana fatica di vivere parlano a noi con un linguaggio straordinariamente familiare. Questo nonostante lo sfondo sia costantemente la provincia russa dove tutto agonizza e naufraga…
In questo contesto immobile e tetro c’è chi ha accettato supinamente la condizione quasi vegetale, altri invece con una formazione culturale più solida o una personalità più composita, lottano ancora contro l’appiattimento delle loro esistenze, della loro volontà di riuscire. Ma anche i miraggi, Mosca per le tre sorelle, la sopravvivenza del giardino per Ljubov Andreevna e Gaev, naufragano di fronte alla realtà che è dura, concreta inflessibile…
Il fallimento separa, isola ciascuno nel proprio disperato universo: i personaggi cechoviani difficilmente trovano modo per comunicare tra loro senza ferirsi, senza aggredirsi, ascoltando di preferenza se stessi, frantumando la propria angoscia in frasi o monologhi che mancano di un vero destinatario. Le pause, le sospensioni sottolineano la disunione, l’incomprensione.
Forse solo nel Giardino dei ciliegi c’è un barlume di salvezza: ed è nei giovani, in Trifimov, in Anja che si amano e che vedono nella distruzione del giardino non la fine, non la deriva, ma l’inizio di una nuova vita.
Forse è al grido di Trifimov «Ti saluto o vita nuova», piuttosto che alle lacrime di Ljubov Andreevna che è affidato l’ultimo senso di questo lavoro: che è anche l’ultimo di Čechov, a cui invece la vita sfuggiva.
Dall’introduzione di Fausto Malcovati in Anton Čechov, Teatro, Garzanti
Il disinganno, il tracollo delle speranze è il motivo che domina tutto il teatro di Čechov, ma i modi di declinare questi temi, i registri e lo stile non sono così univoci come potrebbe apparire a un primo sguardo: nel Giardino dei ciliegi, e in parte già nelle Tre Sorelle, l’atmosfera elegiaca sembra lasciare spazio a una sottile allegria da commedia, a ritmi quasi da vaudeville, secondo quanto ribadito anche dall’autore nei suoi commenti alle celebri regie di Stanislavskji al Teatro dell’Arte.
In questo solco si muoverà la messinscena di Ferdinando Bruni, con l’intenzione di sfruttare il non comune affiatamento della compagnia dell’Elfo (qui schierata al completo), capace di sposare il gusto per le caricature grottesche a momenti d’intenso lirismo, i ritmi vivaci e accelerati a sospensioni pensose e rarefatte.